Quasi quindici anni fa, nelle nostre parole, abbiamo intravisto un incubo. Era in un seminario ed era attraverso la voce del defunto SupMarcos che parlavamo. Diceva:
Di semine e raccolti
(Gennaio 2009)
Forse quello che sto per dire è irrilevante per il tema centrale di questa tavola rotonda, o forse no. Due giorni fa, proprio nel giorno in cui parlavamo di violenza, l’ineffabile Condoleezza Rice, funzionario del governo statunitense, dichiarava che quanto stava accadendo a Gaza era colpa dei palestinesi, a causa della loro natura violenta.
I fiumi sotterranei che attraversano il mondo possono cambiare geografia, ma intonano lo stesso canto.
E quella che sentiamo ora è una canzone di guerra e di dolore. Non lontano da qui, in un luogo chiamato Gaza, in Palestina, nel Medio Oriente, accanto a noi, un esercito pesantemente armato e addestrato, quello di Israele, continua la sua avanzata di morte e distruzione.
I passi compiuti sono, finora, quelli di una classica guerra militare di conquista: prima un massiccio e intenso bombardamento per distruggere i punti «nevralgici» militari (così li chiamano i manuali militari) e per «ammorbidire» le fortificazioni della resistenza; poi il ferreo controllo dell’informazione: tutto ciò che si sente e si vede «nel mondo esterno», cioè fuori dal teatro delle operazioni, deve essere selezionato con criteri militari; ora un intenso fuoco di artiglieria sulla fanteria nemica per proteggere l’avanzata delle truppe verso nuove posizioni; poi sarà l’accerchiamento e l’assedio per indebolire la guarnigione nemica; quindi l’assalto che conquista la posizione annientando il nemico, poi la «pulizia» dei probabili «nidi di resistenza».
Il manuale militare della guerra moderna, con alcune variazioni e aggiunte, viene seguito passo dopo passo dalle forze militari di invasione.
Noi non ne sappiamo molto e, a ben vedere, ci sono specialisti del cosiddetto «conflitto mediorientale», ma da questo angolo (del mondo ndt) abbiamo qualcosa da dire:
Secondo le foto delle agenzie di stampa, i punti «nevralgici» distrutti dall’aviazione governativa israeliana sono case, capanne, edifici civili. Non abbiamo visto bunker, caserme o aeroporti militari, o batterie di cannoni, tra ciò che è stato distrutto. Quindi, scusate la nostra ignoranza, o pensiamo che gli artiglieri abbiano una pessima mira o la verità è che non ci sono punti militari «nevralgici» a Gaza.
Non abbiamo avuto l’onore di conoscere la Palestina, ma presumiamo che queste case, capanne ed edifici fossero abitati da persone, uomini, donne, bambini e anziani, non da soldati. Non abbiamo nemmeno visto fortificazioni, ma solo macerie.
Abbiamo assistito, invece, al tentativo, finora inutile, di oscurare i media, all’esitazione dei vari governi del mondo nel prendere una posizione rispetto all’invasione, e alla figura dell’ONU, da tempo inutile, capace solo di emettere tiepidi comunicati stampa.
Ma aspettate. Ci è venuto in mente che forse per il governo israeliano questi uomini, donne, bambini e anziani sono soldati nemici e, come tali, le capanne, le case e gli edifici in cui vivono sono caserme da distruggere.
Quindi sicuramente il fuoco che è caduto su Gaza questa mattina presto era per proteggere da questi uomini, donne, bambini e anziani l’avanzata della fanteria dell’esercito israeliano.
E la guarnigione nemica che si vuole indebolire con l’assedio di Gaza non è altro che la popolazione palestinese che vi abita. E l’offensiva cercherà di annientare quella popolazione. E ogni uomo, donna, bambino o anziano che riuscirà a sfuggire, nascondendosi, all’assalto prevedibilmente sanguinoso, sarà poi «braccato» in modo che la pulizia possa essere completata, in modo che il comandante militare incaricato dell’operazione possa riferire ai suoi superiori «abbiamo completato la missione».
Perdonate ancora una volta la nostra ignoranza, forse quello che stiamo dicendo è, in realtà, fuori tema, o qualcosa del genere, a seconda dei casi. E che invece di ripudiare e condannare il crimine in corso, da indigeni e guerrieri quali siamo, dovremmo discutere e prendere posizione sul fatto che si tratti di «sionismo» o «antisemitismo», o che tutto sia partito dalle bombe di Hamas.
Forse il nostro pensiero è molto semplice, e ci mancano le sfumature e i dettagli che sono sempre così necessari nell’analisi, ma, per noi, noi zapatisti e zapatiste, a Gaza c’è un esercito di professionisti che uccide una popolazione inerme.
Chi sta in basso e a sinistra può tacere?
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Serve dire qualcosa? Le nostre grida fermeranno qualche bomba? Le nostre parole salveranno la vita di un bambino palestinese?
Noi pensiamo di sì, forse non fermeremo una bomba o la nostra parola non diventerà uno scudo corazzato che impedirà a quel proiettile calibro 5,56 mm o 9 mm, con le lettere «IMI» («Israeli Military Industry») incise sulla base della cartuccia, di raggiungere il petto di una bambina o di un bambino, ma forse la nostra parola riuscirà a unirsi ad altre in Messico e nel mondo e forse diventerà prima un mormorio, poi una voce forte, e poi un urlo che sentiranno fino a Gaza.
Non sappiamo voi, ma noi,zapatiste e zapatisti dell’EZLN sappiamo quanto sia importante, in mezzo alla distruzione e alla morte, sentire qualche parola di incoraggiamento.
Non so come spiegarlo, ma si scopre che sì, le parole da lontano forse non bastano a fermare una bomba, ma sono capaci di aprire una crepa nella stanza nera della morte per farvi entrare un po’ di luce.
Altrimenti, succederà quello che succederà. Il governo israeliano dichiarerà di aver inferto un duro colpo al terrorismo, nasconderà al suo popolo l’entità del massacro, i grandi produttori di armi avranno guadagnato un po’ di respiro economico per affrontare la crisi e «l’opinione pubblica mondiale», quell’entità malleabile e sempre uguale a sè stessa, si girerà dall’altra parte.
Ma non solo. Succederà anche che il popolo palestinese resisterà e sopravviverà e continuerà a lottare, e continuerà a ricevere solidarietà dal basso.
E, forse, sopravviverà anche un ragazzo o una ragazza di Gaza. Forse cresceranno e, con loro, il coraggio, l’indignazione, la rabbia. Forse diventeranno soldati o miliziani di uno dei gruppi che combattono in Palestina. Forse combatteranno contro Israele. Forse lo faranno sparando con un fucile. Forse si immoleranno con una cintura di candelotti di dinamite intorno alla vita.
E allora, dall’alto, scriveranno della natura violenta dei palestinesi e condanneranno la violenza e il dibattito tornerà schiacciato tra sionismo o antisemitismo.
E nessuno si chiederà chi ha seminato quello che stiamo raccogliendo.
A nome degli uomini, donne, bambini e anziani dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale.
Subcomandante Insurgente Marcos.
Messico, 4 gennaio 2009.
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Coloro che all’epoca, quasi 15 anni fa, erano minorenni e sono sopravvissuti, beh….
C’è chi è stato responsabile della semina di ciò che si sta raccogliendo oggi e c’è chi, impunemente, continua a seminare.
Chi solo pochi mesi fa giustificava e difendeva l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin adducendo il «diritto di difendersi da una potenziale minaccia», ora deve destreggiarsi (o scommettere sulla dimenticanza) per invalidare tale argomentazione di fronte a Israele. E viceversa.
Oggi, in Palestina e in Israele – e in tutto il mondo – ci sono bambini e ragazzi che imparano ciò che il terrorismo insegna: che non ci sono limiti, né regole, né leggi, né vergogna.
Né responsabilità.
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Né Hamas né Netanyahu. Il popolo di Israele sopravviverà. Il popolo palestinese sopravviverà. Devono solo darsi una possibilità e impegnarsi. Nel frattempo, ogni guerra continuerà a essere solo un preludio alla successiva, più feroce, più distruttiva, più disumana.
Dalle montagne del sud-est messicano.
Subcomandante Insurgente Moisés.
Messico, ottobre 2023.
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