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Palabra del Ejército Zapatista de Liberación Nacional

Dic232020

TERZA PARTE: LA MISSIONE

TERZA PARTE: LA MISSIONE
Di come Difesa Zapatista cerca di spiegare a Speranza quale sia la missione dello zapatismo e altri felici ragionamenti

 

  «Bene, ti spiegherò qualcosa di molto importante. Ma non puoi prendere appunti, lo devi tenere a mente. Perché il quaderno lo lasci buttato da qualsiasi parte, mentre la testa te la devi tenere addosso tutto il tempo».

  Difesa Zapatista cammina da una parte all’altra, come dice facesse la buonanima quando spiegava qualcosa di molto importante. Speranza è seduta su un tronco e, previdente, ha collocato un nylon sul legno umido fiorito di muschio, funghi e rametti secchi.

«Per caso stiamo per vedere dove arriveremo con la lotta?'», dà il via Difesa Zapatista indicando con le sue manine un punto vago.

Speranza sta pensando una risposta, ma è evidente che Difesa ha fatto una domanda retorica, cioè di cui non le interessa la risposta, bensì le domande che conseguono alla prima questione. A proprio parere, Difesa Zapatista sta seguendo il metodo scientifico..

«La problema non è quindi arrivare, bensì crearsi un cammino. Vale a dire che se non c’è un cammino, allora bisogna farlo, perché altrimenti come si fa», la bambina brandisce un machete che chissà da dove è uscito, ma di sicuro in qualche capanna lo stanno cercando.

«Quindi, la problema è come cambiato, e la primissima cosa è il cammino. Perché se non c’è il cammino dove vuoi andare, perciò diventa una preoccupazione inutile. Quindi che faremo se non c’è cammino per dove andiamo?»

  Speranza risponde con soddisfazione: «Aspettiamo che smetta di piovere per non bagnarci quando faremo il cammino».

Difesa si passa una mano tra i capelli -e rovina la pettinatura che alla sua mammina è costato mezz’ora sistemare- e grida:«No!»

Speranza dubita e azzarda: «Lo so: diciamo una bugia a Pedrito che ci sono caramelle lì dove andiamo, ma non c’è il cammino e che veda chi fa per primo un suo cammino, e si riempie le tasche di caramelle».

Difesa reagisce: «Chiederemo forse aiuto ai fottuti uomini? Maimente. Noi lo faremo da donne che siamo.»

«Certo», dice Speranza, «e magari c’è il cioccolato.»

Difesa prosegue: «Ma che si fa se ci perdiamo nell’aprirci il cammino?»

Speranza risponde: «Gridiamo chiedendo aiuto? Spariamo dei razzetti o suoniamo la conchiglia perché ci sentano dal villaggio e vengano a liberarci?»

Difesa capisce che Speranza sta prendendo la faccenda alla lettera e, inoltre, sta ottenendo il consenso del resto del pubblico. Per esempio, il gatto-cane ora si lecca i baffi immaginando la pentola piena di cioccolato alla fine dell’arcobaleno, e il cavallo monco sospetta che forse ci sia anche del mais col sale e la pentola traboccante di bottiglie di plastica. La Calamità fa le prove della coreografia che le ha disegnato il SupGaleano, chiamata «pas de chocolat«, che consiste nel bilanciarsi a mo’ di rinoceronte sulla pentola.

  Elías Contreras, dal canto suo, fi dalla prima domanda ha tirato fuori la sua lima e affila il suo machete a doppio taglio.

Più in là, un essere indefinito, straordinariamente simile a uno scarafaggio, porta uno striscione dove si legge «Chiamatemi Ismaele«, discute con il Vecchio Antonio i vantaggi dell’immobilità sulla terraferma, e argomenta così: «Eh sì, caro il mio Queequeg, non c’è balena bianca che si avvicini a porto«. L’anziano indigeno e zapatista, maestro involontario della generazione che si sollevò in armi nel 1994, si fa una sigaretta con la macchinetta e ascolta attento le argomentazioni della bestiola.

La bambina Difesa Zapatista si rende conto che, come le scienze e le arti, si trova nella difficile condizione di essere incompresa: come un pas de deux che attende l’abbraccio per le piroette e il sostegno per un porté; come un film rinchiuso in una pizza in attesa di uno sguardo che lo liberi; come un porto senza imbarcazione; come una cumbia che attende le anche che le diano senso e scopo; come un Cigala concavo senza convesso; come Luz Casal andando all’incontro del fiore promesso, come Louis Lingg senza le bombe del punk; come Panchito Varona cercando, dietro un accordo, un aprile rubato* (*riferimenti al flamenco di Diego El Cigala «Cóncavo y convexo», all’album di Luz Casal «Como la flor prometida», alla band Louis Lling and the Bombs, alla canzone «¿Quién me ha robado el mes de abril?» di Joaquín Sabina, di cui Pancho Varona era il chitarrista, N.d.T); come uno ska senza pogo; come un gelato alla nocciola senza un Sup che gli faccia onore.

Ma Difesa è difesa, ma è anche zapatista, così che non ce n’è per nessuno: resistenza e ribellione, e con lo sguardo cerca il soccorso del Vecchio Antonio.

«Ma le tormente non rispettano nessuno: è sempre lo stesso per mare e per terra, nel cielo e al suolo. Fino alle viscere della terra si contorcono e soffrono umani, piante e animali. Non hanno importanza il colore, la dimensione, il modo», dice con voce spenta il Vecchio Antonio.

Tutti mantengono un silenzio a metà tra rispetto e terrore.

Continua il vecchio Antonio: «Le donne e gli uomini fanno in modo di salvaguardarsi da venti, piogge e suoli rotti dalla siccità, e aspettano che passi per vedere cosa resta loro e cosa no. Ma la terra fa di più, perché si prepara al dopo, per quel che segue. E nel suo tutelarsi comincia già a cambiare. La madre terra non aspetta che finisca la tormenta per vedere il da farsi, ma inizia fin da prima a costruire. Perciò i più saggi dicono che il domani non arriva così di punto in bianco e compare all’improvviso, bensì sta già appostato tra le ombre, e chi sa guardare lo trova tra le crepe della notte. Per questo gli uomini e donne di mais, quando seminano, sognano la tortilla, l’atole, il pozol, il tamal e il marquesote. Non ce ne sono ancora, ma sanno che ci saranno e ciò guida il loro lavoro. Guardano al loro campo di lavoro e guardano il frutto lì contenuto ancor prima che il seme tocchi il suolo.

Gli uomini e donne di mais, quando guardano questo mondo e i suoi dolori, guardano anche il mondo che bisognerà edificare, e si creano un cammino. Hanno tre sguardi: uno per il prima, uno per l’adesso, uno per quel che viene. Così sanno che seminano un tesoro: lo sguardo.»

Difesa assente entusiasta. Capisce che il Vecchio Antonio comprende l’argomento che non riesce a spiegare. Due generazioni distanti nel calendario e nella geografia tendono un ponte che va e viene… come i cammini.

«Corretto!», quasi grida la bambina e guarda con affetto l’anziano.

E lei prosegue: «Se già sappiamo dove andiamo, vuol dire che già sappiamo dove non vogliamo andare. Perciò a ogni passo ci allontaniamo da un lato e ci avviciniamo a un altro. Non siamo ancora arrivati, ma il cammino che facciamo ci traccia già quella destinazione. Se vogliamo mangiare tamales, non ci metteremo a seminare zucche».

L’auditorio intero fa un comprensibile gesto di schifo, immaginando un’orribile zuppa di zucca.

«Sopportiamo la tormenta con ciò che sappiamo, ma stiamo già preparando quel che segue. E lo prepariamo una volta per tutte. Per questo bisogna portare la parola lontano. Non importa se chi l’ha detta non ci sarà, quel che importa è che il seme giunga in terra fertile e che, dove già c’è, che si sviluppi. Cioè dare sostegno. Questa è la nostra missione: essere seme che cerca altri semi», sentenzia Difesa Zapatista, e dirigendosi a Speranza, chiede: «Hai capito?»

Speranza si alza in piedi e, con tutta la solennità dei suoi nove anni, risponde seria:

«Sì, certo che ho capito che alla fine moriremo miserabilmente.»

E quasi immediatamente aggiunge: «Ma faremo in modo che ne valga la pena.»

Tutti applaudono.

Per rafforzare il «che valga la pena» di Speranza, il Vecchio Antonio tira fuori dalla sua borsetta una scatola dei cioccolatini che chiamano «baci».

Il gatto-cane se ne fa una bella quantità con una zampata e il cavallo monco preferisce continuare con la sua bottiglia di plastica.

Elías Contreras, comissione di indagine dell’ezln, ripete a bassa voce: «Faremo in modo che ne valga la pena«, e va con il cuore e il pensiero al fratello Samir Flores e a chi affronta, solo con la propria dignità, il fragoroso ladrone dell’acqua e della vita che si nasconde dietro le armi del capoccia, colui che nasconde dietro al suo sproloquio la cieca obbedienza che deve al Capo: primo il denaro, poi il denaro, infine il denaro. Mai giustizia, libertà nemmeno, vita giammai.

L’insettino comincia a discutere su come una tavoletta di cioccolato lo abbia salvato dalla morte nella steppa siberiana mentre andava, venendo dalle terre del Sami –dove intonò lo Yoik-, al territorio dei Selkup a rendere gli onori al Cedro, l’albero della vita. «Andai ad apprendere, ché a questo servono i viaggi. Perché ci sono resistenze e ribellioni che non sono meno importanti ed eroiche per il fatto di essere appartate nel calendario e nella geografia», dice, mentre, con le sue molteplici zampette, libera il cioccolato dalla sua prigione di carta d’alluminio brillante, applaude e se ne fa fuori una porzione, tutto allo stesso tempo.

Da parte sua, Calamità ha capito bene il fatto che si debba pensare a quel che segue, e con il cioccolato impiastricciato nelle manine dichiara entusiasmata: «Giocheremo ai pop-corn!»

-*-

Dal Centro di Addestramento Marittimo-Terrestre Zapatista

Il SupGaleano impartendo la lezione «Lo Sbocco Internazionalista»
Messico, Dicembre 2020

 

Dal quaderno di appunti del gatto-cane: il tesoro è l’altro

  «Al terminare, mi guardò lentamente con il suo unico occhio e mi disse: «La aspettavo Don Durito. Sappia che sono l’ultimo dei veri pirati che viva nel mondo. E dico dei ‘veri’ perché adesso c’è un’infinità di ‘pirati’ che rubano, uccidono, distruggono e saccheggiano dai centri finanziari e dai grandi palazzi governativi, senza toccare altra acqua che quella della vasca. Ecco qui la sua missione (mi consegna un vecchio incartamento). Trovi lei il tesoro e lo metta al sicuro. Ora mi scusi, ma dovrei morire». E al dire ciò, lasciò cadere la testa sul tavolo. Sì, era morto. Il pappagallo si alzò in volo e uscì da una finestra dicendo: ‘Largo all’esiliato di Mitilene, largo al figlio bastardo di Lesbo, largo all’orgoglio del mar Egeo! Aprite le vostre nove porte, temuto inferno, perché è lì che riposerà il grande Barbarossa. Ha trovato chi ne prosegua i passi e ora dorme chi ha fatto dell’oceano una lacrima soltanto. Con Scudo Nero navigherà ora l’orgoglio dei Pirati veri’. Sotto la finestra si stagliava il porto svedese di Göteborg e in lontananza una nyckelharpa gemeva…»

Don Durito de La Lacandona. Ottobre 1999

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

 

Sezione: Tre deliri, due gruppi e un ammutinato

Se seguiamo la rotta dell’Ammiraglio Maxo, credo che arriveremo più in fretta se cammineremo per lo stretto di Bering

Con le ovaie che ci fermiamo

 Il motore c’è, manca solo… la lancia?!

L’equipaggio I

L’equipaggio II

Non abbiamo ancora la barca, ma abbiamo chi comandi l’ammutinamento a bordo

 

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