Mar152018
12 Donne nell’Anno 12 (il secondo della guerra)
12 Donne nell’Anno 12 (il secondo della guerra)
11 marzo 1996
Nell’anno 12 dell’EZLN, lontano, a migliaia di chilometri da Pechino, 12 donne arrivano all’8 marzo 1996 con i loro volti cancellati…
1. Ieri…
Dal volto fasciato di nero si vedono solo gli occhi e qualche ciocca di capelli. Nello sguardo la lucentezza di chi cerca. Una carabina M-1 al petto, in posizione «d’assalto», ed una pistola in vita. Sul petto, a sinistra, luogo di speranze e convinzioni, porta i gradi di Maggiore di Fanteria di un esercito insorto che, da quell’alba gelida del primo gennaio 1994, si chiama Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Sotto il suo comando c’è la colonna ribelle che prende d’assalto l’antica capitale dello stato sudorientale messicano del Chiapas, San Cristóbal de Lasas Casas. Il parco centrale di San Cristóbal è deserto. Solo gli uomini e le donne indigene che comanda sono testimoni del momento in cui il Maggiore, donna, indigena tzotzil e ribelle, raccoglie la bandiera nazionale e la consegna ai capi della ribellione, il «Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno». Via radio, il Maggiore comunica: «Abbiamo preso la bandiera. 10-23 passo». Le ore 02:00, ora sudorientale del primo gennaio 1994. Le ore 01:00 dell’anno nuovo per il resto del mondo. Ha atteso dieci anni per dire quelle sette parole. Era arrivata sulle montagne dalla Selva Lacandona nel dicembre del 1984, a meno di venti anni e con in corpo tutta la storia di umiliazioni degli indigeni. A dicembre del 1984 questa donna dalla pelle bruna dice «Basta!», ma lo dice così piano che solo lei lo sente. A gennaio del 1994 questa donna ed altre decine di migliaia di indigeni non dicono più, ma gridano «Basta!», lo dicono tanto forte che tutto il mondo li sente…
Alla periferia di San Cristóbal un’altra colonna ribelle comandata da un uomo, l’unico di pelle chiara e naso grande tra gli indigeni che assaltano la città, ha appena occupato la stazione di polizia. Liberano dalle prigioni clandestine gli indigeni che trascorrevano l’anno nuovo rinchiusi per il reato più grave che esista nel sudest chiapaneco: essere povero. Il nome del Capitano Insurgente è Eugenio Asparuk, indigeno tzeltal e ribelle che, con quel naso enorme, guida la presa della stazione di polizia. Quando arriva il messaggio della Maggiore, il Capitano Insurgente Pedro, indigeno chol e ribelle, ha appena completato la presa del quartiere della Polizia Federale Stradale ed assicurato la strada che comunica San Cristóbal con Tuxtla Gutiérrez; il Capitano Insurgente Ubilio, indigeno tzeltal e ribelle, ha controllato gli accessi dal nord della città e preso il simbolo delle elemosine del governo agli indigeni, l’Istituto Nazionale Indigenista; il Capitano Insurgente Guglielmo, indigeno chol e ribelle, ha preso l’altura più importante della città, da lì domina a vista il silenzio stupefatto che si affaccia dalle finestre di case ed edifici; i capitani insurgentes Gilberto e Noé, indigeni tzotzil e tzeltal rispettivamente, ribelli allo stesso modo, prendono il quartiere della polizia giudiziaria statale, lo incendiano e vanno a mettere al sicuro la parte estrema della città che corrisponde al quartiere della 31a zona militare di Rancho Nuevo.
Alle 02:00, ora sudorientale del primo gennaio 1994, cinque ufficiali insurgentes, maschi, indigeni e ribelli, ascoltano via radio la voce del loro comandante, donna, indigena e ribelle, che dice «Abbiamo preso la bandiera, 10-23 passo». Lo ripetono alle loro truppe, uomini e donne, tutti indigeni e ribelli, e traducono. «Cominciamo…”
Nel palazzo municipale, la Maggiore organizza la difesa della posizione e la protezione degli uomini e delle donne che in quel momento controllano la città, tutti sono indigeni e ribelli. Una donna in armi li protegge.
Tra i capi indigeni della ribellione c’è una donna piccola, la più piccola tra le piccole. Del viso fasciato di nero si vedono gli occhi e qualche ciocca di capelli. Nello sguardo la lucentezza di chi cerca. Un fucile corto calibro 12 a tracolla sulla schiena. Con il costume unico delle sandreseras, Ramona scende delle montagne insieme a centinaia di donne, in direzione della città di San Cristóbal l’ultima notte dell’anno 1993. Insieme a Susana ed altri uomini indigeni fa parte della direzione indio della guerra che vede l’alba del 1994, il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno-Comando Generale dell’EZLN. La comandante Ramona stupirà per statura e lucidità i mezzi internazionali di comunicazione quando apparirà nei Dialoghi della Cattedrale portando nel suo zaino la bandiera nazionale che la Maggiore aveva recuperato il primo gennaio. A quell’epoca Ramona non lo sa, e nemmeno noi, ma già porta nel corpo la malattia che le strappa la vita a morsi e le spegne la voce e lo sguardo. Ramona e la Maggiore, uniche donne nella delegazione zapatista che si mostra per la prima volta al mondo nei Dialoghi della Cattedrale, dichiarano: «Noi eravamo morte, non contavamo niente», e lo dicono come tirando fuori i conti di umiliazioni e oblio. La Maggiore traduce a Ramona le domande dei giornalisti. Ramona annuisce e capisce, come se le risposte che le chiedono fossero state sempre lì, in quella figura piccola che ride dello spagnolo e del modo di essere delle cittadine. Ramona ride mentre non sa che sta morendo. Quando lo viene a sapere, continua a ridere. Prima non esisteva per nessuno, ora esiste, è donna, è indigena ed è ribelle. Ora Ramona vive, una donna di quel tipo che deve morire per vivere…
La Maggiore comprende che comincia la conquista delle strade di San Cristóbal. I suoi soldati organizzano la difesa dell’antica Jovel e la protezione degli uomini e delle donne che in quei momenti dormono, indigeni e meticci, tutti colti di sorpresa. La Maggiore, donna, indigena e ribelle, ha preso la città. Centinaia di indigeni in armi circondano l’antica Città Reale. Una donna in armi li comanda…
Minuti dopo cadrà nelle mani dei ribelli la città di Las Margaritas, ed ore dopo si arrendono le forze governative che difendono Ocosingo, Altamirano e Chanal. Huixtán e Oxchuc vengono prese da una colonna che avanza verso la prigione principale di San Cristóbal. Dopo le sette parole della Maggiore, sette capoluoghi sono nelle mani degli insorti.
La guerra attraverso la parola è cominciata…
In questi altri luoghi, altre donne, indigene e ribelli, rifanno il pezzo di storia che è toccato loro portare in silenzio fino a quel primo gennaio. Sono anche senza nome né volto:
Irma. Capitana Insurgente di Fanteria, l’indigena chol Irma guida una delle colonne guerrigliere che prendono la piazza di Ocosingo il primo gennaio 1994. Da uno dei lati del parco centrale ha attaccato, insieme ai combattenti al suo comando, la guarnigione che protegge il palazzo municipale fino alla sua resa. Allora Irma scioglie la sua treccia e l capelli le arrivano alla vita. Come se dicesse «sono qui, libera e nuova», i capelli della capitana Irma brillano, e continuano a brillare quando la notte copre una Ocosingo ormai in mani ribelli…
Laura. Capitana Insurgente di Fanteria. Donna tzotzil, valorosa nel combattimento e nello studio, Laura arriva a diventare Capitana di una unità di soli maschi. Ma non è tutto, oltre ad essere uomini, la sua truppa è formata da reclute. Con pazienza, come la montagna che la vista crescere, Laura insegna ed impartisce ordini. Quando gli uomini al suo comando dubitano, lei da da esempio. Nessuna porta tanti pesi né cammina tanto quanto lei nella sua unità. Dopo l’attacco ad Ocosingo, repiega la sua unità, completa e in ordine. Questa donna di pelle chiara non ostenta nulla, ma tra le mani ha la carabina che ha strappato ad un poliziotto di quelli che guardavano le indigene solo per umiliarle o violentarle. Dopo essersi arreso, il poliziotto scappa in mutande; lui che fino a quel giorno pensava che le donne servivano solo per cucinare e partorire marmocchi…
Elisa. Capitana Insurgente di Fanteria. Come trofeo di guerra porta disseminate nel corpo alcune schegge di mortaio. Prende il comando della sua colonna nella rottura del cerchio di fuoco che riempie di sangue il mercato di Ocosingo. Il Capitano Benito è stato ferito ad un occhio e, prima di perdere conoscenza, informa ed ordina: «Mi hanno fottuto, prendi il comando Capitano Elisa». La Capitana Elisa è già ferita quando riesce a tirare fuori dal mercato un pugno di combattenti. Quando impartisce ordini da Capitana Elisa, indigena tzeltal, sembra chiedere scusa… ma tutti le obbediscono…
Silvia. Capitana Insurgente di Fanteria, dieci giorni dentro la trappola in cui si era trasformata Ocosingo a partire dal 2 gennaio. In abiti civili sfugge per tra le strade di una città piena di federali, carri armati e cannoni. Viene fermata ad un posto di blocco. La lasciano passare quasi immediatamente. «Impossibile che una ragazza tanto giovane e tanto fragile sia ribelle», dicono i soldati mentre la guardano allontanarsi. Quando si ricongiunge con la sua unità in montagna, l’indigena chol Silvia, ribelle zapatista, è triste. Con delicatezza le chiedo la causa della pena che le spegne il sorriso. «Là ad Ocosingo», risponde abbassando lo sguardo, «là ad Ocosingo ho lasciato lo zaino con tutte le musicassete, ed ora non ne abbiamo più». Sta in silenzio. Io non dico niente, mi unisco al suo dolore e capisco che in guerra ciascuno perde ciò che più ama…
Maribel. Capitana Insurgente di Fanteria. Prende la stazione radio di Las Margaritas quando la sua unità assalta il capoluogo il prima gennaio 1994, ha trascorso nove anni di vita sulle montagne per sedersi di fronte a quel microfono e dire: «Siamo il prodotto di 500 anni di lotte: primo contro la schiavitú…». La trasmissione non va in onda per problemi tecnici e Maribel per coprirsi le spalle ripiega con l’unità che avanza su Comitán. Giorni dopo, scorterà il prigioniero di guerra, il generale Absalón Castellanos Domínguez. Maribel è tzeltal ed aveva meno di quindici anni quando arrivò sulle montagne del Sudest messicano. «Il momento più difficile di quei nove anni è stato quando ho dovuto scalare la prima altura, il colle dell’inferno, poi tutto è andato via liscio», dice l’ufficiale ribelle. Nella consegna del generale Castellanos Domínguez, la Capitana Maribel è la prima ribelle che entra in contatto col governo. Il commissario Manuel Camacho Solís le stringe la mano e le chiede l’età: «502», risponde Maribel che conta gli anni dalla nascita della ribellione…
Isidora. Insurgente di Fanteria. Isidora entra in Ocosingo il primo gennaio come soldato semplice. Come soldato semplice Isidora esce da Ocosingo in fiamme, per ore tira fuori la sua unità composta di soli uomini, con quaranta feriti. Ha schegge di granata nelle braccia e nelle gambe. Isidora raggiunge la postazione sanitaria e consegna i feriti, chiede un po’ d’acqua e si alza. «Dove vai?», le chiedono mentre cercano di curarle le ferite che sanguinano sul viso e colorano di rosso l’uniforme. «A prendere gli altri», dice Isidora mentre carica la sua arma. Tentano di fermarla ma non ci riescono, la soldatessa semplice Isidora ha detto che deve tornare ad Ocosingo a tirare fuori i compagni dalla musica di morte che cantano i mortai e le granate. La devono arrestare per fermarla. «La cosa buona è che se mi puniscono non possono degradarmi», dice Isidora mentre è chiusa nella stanza che serve da prigione. Mesi dopo, quando le conferiscono la stella che la promuove ad ufficiale di fanteria, Isidora, tzeltal e zapatista, guarda la stella ed il comandante e chiede, come una bambina in castigo, «perché?». Non aspetta la risposta.
Amalia. Sottotenente di Sanità. La risata più rapida del Sudest messicano, Amalia, prende il Capitano Benito dalla pozza di sangue in cui si trova incosciente e lo trascina fino ad un luogo sicuro. Se lo carica in spalla e lo porta fuori dalla cintura di morte che cinge il mercato. Quando qualcuno parla di arrendersi, Amalia, facendo onore al sangue chol che le scorre nelle vene, si arrabbia ed comincia a discutere. Tutti l’ascoltano, nonostante il fragore delle esplosioni e degli spari. Nessuno si arrende.
Elena. Tenente di Sanità. E’ arrivata nell’EZLN analfabeta. Qui ha imparato a leggere, a scrivere e a fare l’infermiera. Da curare diarree e vaccinare, Elena passa a curare ferite di guerra nel suo piccolo ospedale che è anche casa, magazzino e farmacia. Con difficoltà estrae i pezzi di mortaio conficcati nei corpi degli zapatisti che arrivano alla sua postazione sanitaria. «Alcuni si possono rimuovere ed altri no», dice Elenita, chol ed insurgente, come se parlasse di ricordi e non di pezzi di piombo…
A San Cristóbal, già la mattina del 1° gennaio 1994, si comunica attraverso il grande naso dalla pelle chiara: «C’è una persona che sta facendo domande ma non capisco la lingua, sembra che parli inglese. Non so se è un giornalista ma ha una telecamera». «Vado io», dice il nasone e si infila il passamontagna.
Da un’auto prende le armi recuperate nella stazione di polizia e si dirige nel centro della città. Scaricano le armi e le distribuiscono agli indigeni che controllano il palazzo municipale. Lo straniero è un turista che domanda se può uscire dalla città. «No», risponde il passamontagna dal naso sproporzionato, «è meglio che torni in hotel. Non sappiamo che cosa succederà.» Il turista straniero si ritira dopo aver chiesto il permesso di registrare un video. Nel frattempo la mattina avanza, arrivano curiosi, giornalisti e domande. Il naso risponde e spiega a locali, turisti e giornalisti. La Maggiore è dietro di lui. Il passamontagna parla e scherza. Una donna armata gli copre le spalle.
Un giornalista dietro una telecamera chiede: «E lei chi è?». «Chi sono io?», si chiede il passamontagna mentre lotta contro il sonno. «Sì», insiste il giornalista, «si chiama `comandate tigre’ o `comandante leone’? «Ah! No», risponde il passamontagna sfregandosi gli occhi con fastidio. «Allora, come si chiama?», dice il giornalista mentre avvicina il microfono e la telecamera. Il passamontagna nasuto risponde: «Marcos. Subcomandante Marcos…». In alto volteggiano gli aerei Pilatus…
A partire da lì, l’impeccabile azione militare della presa di San Cristóbal si dilegua, e con essa si cancella il fatto che è stata una donna, indigena e ribelle a comandare l’operativo. La partecipazione delle donne combattenti nelle altre azioni del primo gennaio e del lungo cammino decennale della nascita dell’EZLN resta relegata. Il volto cancellato dal passamontagna si cancella ancor di più quando i riflettori si concentrano su Marcos. La Maggiore non dice niente, continua a guardare le spalle a quel naso pronunciato che ora ha un nome per il resto del mondo. A lei nessuno chiede il nome…
All’alba del 2 gennaio 1994, questa donna guida il ripiegamento da San Cristóbal verso le montagne. Torna a San Cristóbal cinquanta giorni dopo, come parte della sicurezza dei delegati del CCRI-CG dell’EZLN al Dialogo della Cattedrale. Alcune giornaliste donne la intervistano e le chiedono il nome. «Ana María. Maggiore Insurgente Ana María», risponde guardando con i suoi occhi scuri. Esce dalla Cattedrale e scompare per il resto del 1994. Come le altre sue compagne, deve aspettare e tacere…
A dicembre del 1994, dieci anni dopo essere stata soldato, Ana María riceve l’ordine di preparare la rottura dell’accerchiamento teso dalle forze governative intorno alla Selva Lacandona. All’alba del 19 dicembre, l’EZLN prende posizione in trentotto municipi. Ana María comanda l’azione nei municipi degli Altos del Chiapas. Dodici donne ufficiali sono con lei nell’azione: Mónica, Isabela, Yuri, Patricia, Juana, Ofelia, Celina, María, Gabriela, Alicia, Zenaida y María Luisa. Ana María stessa prende il capoluogo Bochil.
Dopo il ripiegamento zapatista, l’alto comando dell’esercito federale ordina che non si dica niente circa la rottura dell’accerchiamento e che ai media si dica che è solo un’azione propagandistica dell’EZLN. L’orgoglio dei federali è doppiamente ferito: gli zapatisti hanno rotto l’assedio e, oltretutto, era una donna a comandare l’unità che ha strappato loro il controllo di vari capoluoghi. Impossibile da ammettere, bisogna spendere un sacco di soldi affinché l’azione non venga portata a conoscenza del pubblico.
Una volta per l’azione involontaria dei suoi compagni d’armi, un’altra per l’azione deliberata del governo, Ana María, e con lei le donne zapatiste, vengono minimizzata e rimpicciolite …
2. Oggi…
Sto finendo di scrivere questo testo quando viene da me…
Doña Juanita. Morto il vecchio Antonio, doña Juanita si lascia andare alla vita con la stessa lentezza con cui prepara il caffè. Forte ancora nel corpo, doña Juanita ha annunciato che morirà. «Non dica sciocchezze, nonna», le dico evitando il suo sguardo. «Ehi tu, guarda», risponde, «se per vivere moriamo, nessuno mi impedirà di vivere. E tanto meno un ragazzino come te», dice e rimprovera la nonna doñ Juanita, la moglie del vecchio Antonio, una donna ribelle per tutta la sua vita e, come si vede, anche per tutta la sua morte…
Nel frattempo, dall’altro lato dell’accerchiamento, appare…
Lei. Non ha grado militare, né uniforme né armi. È zapatista ma solo lei lo sa. Non ha volto né nome, come le zapatiste. Lotta per democrazia, libertà e giustizia, come le zapatiste. Fa parte di quello che l’EZLN chiama «società civile», gente senza partito, gente che non appartiene alla «società politica» composta da governanti e dirigenti di partiti politici. Fa parte di quel diffuso, ma reale, che è la parte della società che dice, «Basta!». Anche lei ha detto «Basta!». Al principio si è sorprese lei stessa di queste parole, ma poi, a forza di ripeterle e, soprattutto, di viverle, a smesso di avere paura, di tenersi la paura. Lei ora è zapatista, ha unito il suo destino a quello degli zapatisti in questo nuovo delirio che tanto atterrisce partiti politici ed intellettuali del potere, il Fronte Zapatista di Liberazione Nazionale. Ha già combattuto contro tutti, contro suo marito, il suo amante, il suo fidanzato, i suoi figli, il suo amico, suo fratello, suo padre, suo nonno. «Sei pazza», è stato il giudizio unanime. Non è poco quello che si lascia dietro. La sua rinuncia, se si trattasse di dimensione, è più grande di quella delle insorte che non hanno niente da perdere. Il suo tutto, il suo mondo, le dice di dimenticarsi di «quei pazzi zapatisti» ed il conformismo la invita a sedersi nella comoda indifferenza del farsi i fatti propri. Lascia tutto. Lei non dice niente. Presto, di buon mattino, affila la tenera punta della speranza ed emula il primo gennaio dei suoi fratelli zapatisti molte volte in uno stesso giorno che, almeno 364 volte all’anno, non ha niente a che vedere con il primo di gennaio.
Lei sorride, ammirava le zapatiste ma ora non più. Ha smesso di ammirarle nel momento in cui si è resa conto che erano solo lo specchio della sua ribellione, della sua speranza.
Lei scopre di essere nata il primo gennaio del 1994. Da allora sente che è viva e che quello che le hanno sempre detto essere sogno e utopia, può essere vero.
Lei conserva in silenzio e senza alcun guadagno, insieme ad altre ed altri, questo complicato sogno che alcuni chiamano speranza: quel per tutti tutto, niente per noi.
Lei arriva all’8 di marzo col volto cancellato, col nome nascosto. Con lei arrivano migliaia di donne. Ne arrivano sempre di più. Decine, centinaia, migliaia, milioni di donne in tutto il mondo ricordando che c’è ancora molto da fare, ricordando che bisogna lottare ancora molto. Perché risulta che la dignità è contagiosa e sono le donne le più propense ad ammalarsi di questa scomoda malattia…
Questo 8 marzo è un buon pretesto per ricordare e dare la loro dimensione alle insorti zapatiste, alle zapatiste, a quelle armate e non armate.
Alle donne messicane ribelli e scomode che si ostinano a sottolineare che la storia, senza di loro, non è altro che una storia fatta male…
3. Domani…
Se c’è, sarà con loro e, soprattutto, per loro…
Dalle montagne del Sudest Messicano
Subcomandante Insurgente Marcos
Traduzione “Maribel” – Bergamo
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