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Palabra del Ejército Zapatista de Liberación Nacional

Ene042018

DAL QUADERNO DI APPUNTI DEL GATTO-CANE

DAL QUADERNO DI APPUNTI DEL GATTO-CANE.
CHE NARRA DI COME SI INCONTRARONO I DUE PIÙ GRANDI DETECTIVE, UN FRAMMENTO DI QUELLO DI CUI ELÍAS CONTRERAS ED IL SUPGALEANO PARLARONO RIGUARDO AL CASO DELLA NON PIÙ MISTERIOSA SPARIZIONE DELLE BRIOCHE, E DI QUANDO DIFESA ZAPATISTA FECE A PEZZI LA SCIENZA DEL LINGUAGGIO, COSì COME DI ALCUNE OZIOSE RIFLESSIONI DEL SUP CHE CASCANO A PROPOSITO.
30 dicembre 2017
Buoni e reiterati giorno, pomeriggio, notte, mattino.
Prima di tutto, vogliamo mandare un abbraccio al popolo Mapuche che continua ad essere aggredito dai malgoverni dei paesi chiamati Cile ed Argentina. Ora, con le loro trappole giuridiche, sono tornati a sottoporre a giudizio la Machi Francisca Linconao, insieme ad altre ed altri mapuche. Un’altra dimostrazione che, nel sistema che ci opprime, quelli che distruggono la natura sono i buoni, mentre quelli che resistono e difendono la vita sono perseguiti, assassinati ed imprigionati come se fossero criminali Ma, nonostante questo, o proprio per questo, basta una sola parola per descrivere la lotta del popolo Mapuche e di tutti i popoli originari di questo continente: Marichiweu, dieci, mille volte, vinceremo sempre.
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Ieri, uno degli scienziati ci ha informati che c’è un concorso per il messaggio che una navetta spaziale trasporterà verso un altro pianeta, e che il premio è di un milione di dollari.
Il messaggio che proponiamo, e che sicuramente vincerà è: “Non permettete che noi ci stabiliamo nel vostro mondo. Se non abbiamo risolto i problemi che noi abbiamo provocato, ripeteremo gli stessi errori. E quindi non arriveremo soli, con noi arriverà un sistema criminale. Per il vostro mondo saremo un Alien apocalittico, il temuto ottavo passeggero che cresce e si riproduce grazie alla morte e alla distruzione. La spinta per conoscere altri mondi dovrebbe essere la sete di conoscenza, il bisogno di imparare e il rispetto per il diverso, e non la ricerca di nuovi mercati per la guerra, né il rifugio per l’assassino fatto sistema”.
Per favore, depositare il milione di dollari sul conto corrente dell’associazione civile “Llegó la hora del florecimiento de los pueblos” che appoggia il Consiglio Indigeno di Governo.
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Quella che leggerò doveva essere il nostro contributo al tavolo di ieri ma, come al Pedrito, mi hanno applicato la «equità di genere», scappellotto compreso e, tanto per cambiare, hanno vinto le «donne in quanto donne». Proseguiamo, dunque:
Il dottor John Watson si guarda allo specchio preoccupato. Si pettina su entrambi i lati, davanti e dietro. Si guarda di fronte, di profilo destro, sinistro e, con uno specchio in mano, dietro. Mentre è così curiosamente indaffarato mormora tra sé:
Capelli di tortilla… perché dice «capelli di tortilla»?… sarà per il colore?… o la pettinatura… forse i capelli bianchi che ormai competono per numero con i capelli scuri… o sarà la pettinatura?.. capelli di tortilla… dannata bambina…”.
In quel mentre, Sherlock Holmes, detective consulente, si alza di scatto dall’amaca in cui, sdraiato, strappava al violino alcune note malinconiche. Sistemandosi con cura il soprabito, Sherlock sollecita il dottore:
Svelto Watson, non abbiamo molto tempo”.
E dove dovremmo andare, Holmes? Il freddo punge e alla Giunta dicono che peggiorerà”, protesta Watson oltrepassando l’architrave della capanna che hanno assegnato loro le autorità autonome per il loro soggiorno nelle montagne del sudest messicano.
Holmes non si cura nemmeno di rispondere. A grandi falcate avanza sulla strada principale della comunità e si dirige alla casetta sulla cui facciata c’è un cartello dove si legge «Commissione di Vigilanza» ed un murale dai colori vivaci che sfida l’umidità. Al suo interno una giovane indigena osserva attenta il monitor di un computer.
«Te´ oyot Tzeb», (ti saluto «, jóvena«) dice Sherlock Holmes nel suo miglior tzotzil, al quale, apparentemente, sono bastati pochi giorni per imparare l’indispensabile per farsi capire nelle lingue maya di quelle zone.
Watson lo guarda divertito quando la donna che sta di commissione di vigilanza gli risponde in perfetto inglese: «Good Afternoon» («buona sera»). Benché il suo accento, più che britannico, a Watson è suonato più vicino a quello di Dublino.
Holmes ignora lo sguardo sarcastico di Watson ed in impeccabile spagnolo, chiede:
«Cosa mi puoi dire di una persona con cui voglio parlare?”.
La donna, una giovane indigena, piccoletta, con lunghe trecce e vivaci occhi neri, sembra molto divertita e risponde in perfetto tedesco: “Und wie heißt diese Person?“ (“e come si chiama questa persona?“).
Holmes immediatamente capta la faccenda e, in un francese da migrante “sans papiers”, risponde:
Je ne connais pas son nom, mais sa profession est un enquêteur privé” (“Non conosco il suo nome, ma di professione è investigatore privato”).
Non capisco niente”, dice la giovane indigena in un italiano di quartiere rabbioso e indomito.
Il dottor John Watson sembra divertito delle difficoltà di Holmes, ma guarda preoccupato la strada, temendo che appaia la bambina.
Sherlock Holmes sta pensando come si dice «investigatore privato» o «detective» in russo, quando i timori di Watson si confermano.
Come un piccolo uragano, la bambina che dice di chiamarsi Difesa Zapatista scende di corsa dalla strada piena di pozzanghere ed entra intempestivamente nella casetta mentre Watson istintivamente si sistema i capelli e Sherlock si chiede se sia meglio usare il cinese mandarino o il polacco.
Difesa Zapatista abbraccia Sherlock gridando “¡Jol-mes, testa di scopa!”.
Beh, abbracciarlo è una parola. L’altezza di Holmes e quella della bambina fanno sì che il detective riceva l’abbraccio alle ginocchia.
Il detective consulente è sconcertato. La statura minima delle persone con la quale ha avuto a che fare a Londra è di 1 metro e 75 centimetri, benché stando in terre zapatiste ha dovuto abbassare il suo standard al metro e mezzo. Rispetto ai bambini, beh, oltre a prendere le distanze ogni volta che ne vedeva uno e mostrarsi infastidito se ne sentiva il pianto, la sua esperienza era zero. Ma, per qualche strana ragione, il più grande dei detective provava simpatia per Difesa Zapatista.
La bambina si volta verso l’egregio Dottore e blogger, John Watson, e gli salta al collo con un «Waj-tson, capelli di tortilla!» che non fa per nulla felice l’ex medico militare.
Difesa Zapatista prende i due per mano e li tira verso l’uscita: «Svelti, che arriviamo tardi!».
La giovane donna della Commissione di Vigilanza, delusa dal repentino finale del suo internazionalismo linguistico, chiude le 7 finestre del browser sul traduttore di google in diverse lingue e torna al blog che informa sulle attività della portavoce del Consiglio Indigeno di Governo, María de Jesús Patricio Martínez.
Holmes non ha bisogno di correre; per ognuna delle sue falcate la bambina deve fare molti passi. Sherlock alla sua destra tiene il bastone con cui è uso frugare nella terra e tra le piante alla ricerca di insetti. Watson ritarda di proposito quando vede che il cosiddetto «gatto-cane» morde Holmes all’orlo dei pantaloni. Di sicuro per obbligarlo a ridurre la sua falcata e così camminare-correre al pari della bambina.
All’improvviso la bambina si ferma di colpo e dice sollevata: «Siamo arrivati».
Sono nel recinto che serve sia da pascolo collettivo del bestiame che per le partite di calcio delle squadre che si alternano per ingrandire ed approfondire la crepa nel muro, sia per feste, balli e festival, oltre ad essere il campo di allenamento per l’incompleta squadra di Difesa Zapatista.
Watson, che non si è ancora orientato nel villaggio dove passano la maggior parte del tempo, conferma con disappunto che è un pascolo quando sotto la suola delle scarpe avverte la spessa e tiepida merda bovina.
Difesa Zapatista dice “Voi aspettate qui, vado a prendere il cavallo orbo”, e se ne va correndo con il gatto-cane dietro.
Allora, un uomo indigeno di età indefinita si avvicina alla coppia di britannici.
Sherlock Holmes lo guarda avvicinarsi e, con l’acutezza che gli ha dato fama, comincia a costruirsi una sembianza dell’indigeno ma, prima che finisca di farla, il personaggio gli dice:
Buon giorno signor Jol-mez, signor Waj-tson. Non si preoccupi, dice rivolto a Sherlock, il suo sarto a Londra rimedierà senza problemi allo strappo. Credo anche che nella calzoleria zapatista troverete degli stivali del vostro numero. Qui succede così, a volte sembra che non ci sia niente da fare, ma dovrebbe tentare di non fumare così tanto la pipa, è dannoso per la sua salute. Le raccomando il violino invece della pipa quando non le passa la giornata. E non le consiglio di parlare male delle donne da queste parti, perché si arrabbiano, soprattutto Difesa Zapatista». Sherlock Holmes ammutolisce attonito, e Watson lo guarda curioso. Sembra che il detective abbia ricevuto il fatto suo.
Holmes passa dallo stupore all’ammirazione ed applaude «Bravo! Ha indovinato quasi tutto, benché mi permetta di dissentire dall’accusa di misoginia».
Watson, come sempre, non capisce niente.
È l’indigeno che glielo spiega, mentre Holmes annuisce ad ogni affermazione:
Elementare, mio caro «Capelli di Tortilla»: il signore ha indossato molto velocemente il suo costoso impermeabile e, senza volerlo, ha strappato leggermente il polsino sinistro. Uno che si veste così deve stare molto attento a quello che indossa, cosicché si spera che tra i suoi pensieri ci sia anche quello di andare dal sarto per sistemare il soprabito. Che il sarto sia a Londra è facile, siccome porta il soprabito semiaperto, si riesce a vedere l’etichetta.
Le macchie di nicotina alla base del dito indice e su parte del palmo della mano, indicano che fuma molto la pipa, perché sono segni che lascia il tabacco che esce dal fornello. Per quanto riguarda gli stivali, gli stivaletti che indossate qui non durano molto e c’è da sperare che abbiate pensato di procurarvi degli stivali come quelli che usiamo noi, che sono fatti da calzolai insurgentes e che si comperano nel negozio dei compas.
Naturalmente, mi sono dimenticato di dire che il signor Jol.mes è destrimano, tiene la pipa con la sinistra perché la destra la usa, per esempio, per suonare il violino.
Il violino, beh, il modo in cui tiene il bastone che porta con sé è lo stesso che assume Pablito, del mariachi zapatista, per suonare il violino alle feste, e l’arrossamento sul lato sinistro del suo collo è perché suona il violino o perché qualche insetto l’ha punto proprio lì… o perché gli hanno fatto un succhiotto. Il parlare male delle donne è stato solo per vedere se ci azzeccavo, ma è in compagnia di un uomo, quindi, o pensa male delle donne o preferisce gli uomini».
Holmes applaude di nuovo. L’insinuazione di omosessualità che ha fatto l’indigeno non lo turba assolutamente. Ma Watson è molto geloso della sua eterosessualità e tenta di spiegare:
«Mi scusi, ma Holmes ed io non siamo una coppia. Voglio dire, sì siamo una coppia ma non nel senso di un succhiotto, ma, beh, cioè, diciamo, è una relazione…professionale».
L’indigeno lo interrompe: «Non ti preoccupare Waj-Tson, qui ognuno fa come gli pare e si rispetta».
«Lo so», dice Watson, «ma non è quello che sembra, certo, non è che io condanni le relazioni di quel tipo, solo chiarisco che…».
Ora è Holmes che lo interrompe e si china con rispetto dicendo:
Se non erro, lei deve essere Elías Contreras, commissione di investigazione”.
A sua volta ammirato, Watson si toglie la bombetta con cui, inutilmente, tenta di nascondere i suoi “capelli di tortilla”, e saluta.
Holmes aggiunge: “Solo qualcuno come Elías Contreras potrebbe fare questa catena di osservazioni, ragionamenti e deduzioni ad una velocità che mi supera”.
Invece di ringraziare, Elías Contreras sorride burlone quando dice:
Naaah, il fatto è che il SupGaleano ha qualche libro che parla di voi due e racconta i vostri modi, la pipa, il violino e quelle cose lì, e nell’ufficio di vigilanza ho visto i vostri nomi tra la lista dei visitatori e, siccome siete gli unici cittadini qui nel villaggio, beh…”.
Watson si rimette la bombetta con disappunto. Ma Holmes si mostra sorridente e lieto di imbattersi con il per nulla famoso detective, quello che chiamano «commissione di investigazione dell’ezetaelene».
Ha ragione, mio caro Elías Contreras, o devo chiamarla in un altro modo?”, dice mentre gli tende, calorosamente, la mano.
Basta Elías”, dice lo zapatista offrendogli una sigaretta da rollare, che entrambi cordialmente rifiutano. Sherlock riprende la parola:
«Lo sa? Pensavo qualcosa di simile di Sir Arthur, che mi dava da leggere le bozze della deplorevole cronaca dei miei ritrovamenti che poi aggiudicava inspiegabilmente al dottor Waj-tson, qui presente».
Watson tenta di protestare, ma ci ripensa e si cala in testa il cappello.
«Ed io vedevo che Sir Arthur abbelliva, in maniera superflua a parer mio, il lavoro che realizzava. E io dico, mio caro Elías, che la scienza, e le sue spiegazioni, è ben lontana dal glamour che le attribuiscono i romanzieri e comunemente la gente.
Oltre al fatto che non è esente da errori, dalla continua e spossante sperimentazione e dallo studio profondo e sistematico dei progressi che, a vari titoli, avvengono in tutti gli angoli del mondo, la scienza e la sua applicazione sono difficili.
Il rigore scientifico trasforma il suo esercizio in qualcosa di arido e lo contrappone alla pigrizia intellettuale che si ritrova di continuo nelle opinioni, nei commenti e nelle superstizioni comuni. Per la stessa cosa, quando hanno l’opportunità di studiare, alcune persone normalmente optano per le mal denominate scienze sociali, o per quelle umanistiche in generale che, a loro intendere ed erroneamente, non richiedono il rigore, la minuzia e la complessità delle conoscenze scientifiche.
Le arti, per quello che si riferisce ad esse, non solo non richiedono rigore nel senso dell’esattezza ma, a differenza delle scienze esatte, naturali ed umanistiche, possono immaginare non solo altre realtà, ma anche meravigliare con le forme, i suoni e i colori con cui plasmano quell’imaginario.
Forse per questo le arti sono più vicine alle scienze esatte e naturali. A differenza delle scienze cosiddette umanistiche.
Per fare un esempio, l’apertura che richiede il racconto romanzesco, nel caso della scienza sarebbe un’irresponsabilità imperdonabile ed una chiara violazione del codice etico che qualunque scienziato deve includere nella sua pratica.
Ma un problema che presto o tardi si deve affrontare è che, il fatto di imporsi una rigida disciplina e possedere solide conoscenze, fa sì che chi fa della scienza la sua professione, non poche volte assuma un atteggiamento pedante e miserabile verso la gente comune.
Generalmente sono superbi e, non poche volte, si tratta di giustificare così la loro frivolezza e mancanza di senso comune in quanto ai fatti quotidiani. Come se la vita reale fosse una faccenda terrena e loro fossero al di sopra di tutto.
Ma è innegabile che a volte, e nonostante gli stessi scienziati, le scienze esatte e naturali sono imprescindibili. La possibilità reale, fattibile, di uscire dal paludoso incubo che è ormai il sistema mondiale omogeneo, avrà nelle scienze esatte e naturali il suo principale fondamento. Se non è così, continueremo a consolarci con la fantascienza».
Watson guarda sorpreso Holmes mentre pensa “Incredibile, Sherlock Holmes sta descrivendo sé stesso in toni di biasimo”.
Holmes avverte lo sguardo di Watson e, rivolgendosi a lui, chiarisce:
Ti sbagli Watson, non mi sto autocriticando. È evidente che questo discorso non è mio ma mi è stato assegnato da quel tale SupGaleano, perché gli zapatisti pensano che l’apprezzamento e il lieve rimprovero che fanno, sarà accolto meglio dalla comunità scientifica se viene dal più grande dei detective della storia mondiale piuttosto che attraverso un naso mascherato che ancora usa il modello del danese Niels Henrik David Bohr in riferimento all’atomo e che, per descriverlo, usa espressioni come «è una pallina formata da tante palline attaccate tra loro, intorno alle quali girano altre palline”.
Sherlock Holmes rabbrividisce. Un po’ per la scandalosa descrizione dell’atomo e un po’ perché sembra che, finalmente, si è liberato del discorso che lo zapatismo gli ha imposto, supportato da quella che si chiama «licenza poetica».
Elías Contreras, commissione di investigazione dell’ezetaelene, interviene solo con un “mmm”.
Quello che accadde in seguito lo sappiamo perché il dottor John Watson prese nota di quello che si disse, benché non con l’intenzione di pubblicarlo ma solo per l’interesse che la conversazione gli aveva risvegliato. Ciò per cui Holmes lo avrebbe ringraziato, perché quello che gli riferì Elías Contreras continua ad essere rivelatore.
Sherlock Holmes prese in dispare Elías, seguiti a prudente distanza dal dottor Watson. La bambina era occupata a cercare di convincere un cavallo orbo ad occupare la sua posizione nella barriera, coadiuvata dai latrati-miagolii del gatto-cane.
«Adesso facciamo qualche tiro libero», sentì dire Watson dalla bambina, e vide che un bambino si accomodava, burlone, sotto la traversa di quella che sembrava essere una porta.
Sherlock Holmes quasi mormorò:
«Mio caro Elías, sono venuto da lei per sapere se non ha per le mani un caso che richieda l’ausilio della mia abilità di detective. Certo, prometto di essere discreto e di non reclamare per me alcun credito nell’ipotesi che abbiamo successo».
Elías Contreras si fermò e disse nello stesso tono confidenziale:
«Bene. Ma vedo che la problema è molto grande ed abbiamo solo la testa per capire e vedere come si mette. E di quello che mi entra in testa, ne posso discutere poi con le compagne e compagni del comitato”.
“Eccellente!”, esclamò Sherlock Holmes, «la riflessione astratta richiede uno sforzo extra che obbliga il cervello a sublimarsi. Faccia attenzione Watson, perché suppongo che ora affronteremo la sfida suprema di ogni detective: risolvere un crimine solo con gli strumenti logici e la conoscenza scientifica».
Holmes era molto eccitato. Watson non ricordava di averlo visto così dal caso di «Uno Studio in Rosso» che ha dato nome e prestigio mondiale al detective consulente.
Sherlock Holmes non fece fretta ad Elías Contreras. Si accese la pipa, ma più per accompagnare la sigaretta che Elías si stava preparando e per gustare il gusto piccante del fumo di tabacco sul palato.
Elías Contreras cominciò:
«Beh, la problema è grande ma semplice. Cioè, sappiamo chi è l’assassino, chi è la vittima, quale è l’arma usata e quale è, come si dice, la scena del crimine cioè, dove è avvenuto il fattaccio e quando. Ovvero, come dice il Sup, abbiamo il calendario e la geografia.
Quindi la problema è grande perché tutto è stravolto. Ma non so se di per sé è realmente stravolto, o se è il mio pensiero ad essere stravolto.
Cioè, il crimine è già stato commesso, ma si sta ancora commettendo ed anche si commetterà. Cioè, è un casino che non è che è già passato, o che lo stanno facendo ora, ma è anche che lo faranno”.
Holmes si mostrò ancora più interessato, ma non interruppe Elías Contreras, che proseguì:
«Dunque dobbiamo sapere che cosa è successo, che cosa sta succedendo e sapere che cosa succederà per far sì che non accada, perché se succede, accadrà una grande disgrazia che non si può nemmeno immaginare”.
Sherlock Holmes approfitta dell’impasse aperta dalla commissione di investigazione per arrischiare:
Credo di capire: dobbiamo conoscere il crimine commesso per capire il crimine che si sta commettendo ed evitare così che si commetta l’altro crimine: il peggiore e più grande crimine nella storia dell’umanità”.
Elías Contreras annuisce e prosegue:
«Il criminale non si nasconde, al contrario, si mostra e si vanta di quello che ha fatto. Dice che è stato un bene il suo crimine di ammazzare, distruggere e rubare per farsi conoscere. Io penso che proprio lì, quando è nato come criminale, quando ha preso le sue modalità, è lì che possiamo imparare per sapere come sta facendo il suo casino e come lo farà».
Vero”, interrompe Holmes, “è necessario ricostruire la genealogia del crimine che, in questo caso e se ho ben capito, è anche la genealogia del criminale. Ma, prego prosegua”.
Bene,” continua Elías, «e qui vediamo come il criminale si è modernizzato, cioè è migliorato come criminale e si preoccupa che non si sappia che è un criminale, ma si veste da buono, così come se niente fosse».
«Poi, ha i suoi complici, cioè i suoi compari nel delitto. E questi complici si incaricano di mettere al criminale una faccia da brava persona. Ma siccome si vede chiaramente che è una fregatura, allora questi compari del male inventano un colpevole. Cioè, il loro lavoro è gettare la colpa su qualcun altro.
E così cercano su chi gettare la colpa della disgrazia. A volte ad avere la colpa è la donna, perché non obbedisce, dicono, perché se ne va in giro con i suoi abiti da puttana, dicono, e perfino perché studia e lavora e vuole anche autogestire il proprio corpo, la sua vita, è come autonoma, perché pensa, come un municipio autonomo ribelle.
Altre volte gettano la colpa su chi ha la pelle di un colore, o che ha un altro modo di essere, come per esempio la Magdalena che è morta lottando contro il male ed il cattivo e che era una donna ma, come si dice, dio si è sbagliato e le ha dato un corpo da uomo e la Magdalena non si è nascosta né si è adattata, ma se n’è fregata di quello che gli altri pensavano e lei era altra, e siccome stava in un altro corpo, era otroa. E lei, o lui, o elloa, lottava per essere quello che era.
Molto coraggiosa la Magdalena, non si è mai arresa”, dice Elías e gli occhi si inumidiscono al ricordo di chi, a modo suo, ha amato ed ancora ama.
Holmes e Watson restano in rispettoso silenzio.
Elías si ricompone e prosegue: «e poi danno la colpa anche a noi che siamo indigeni che le cose non funzionano perché non siamo civilizzati, dicono, non permettiamo che il progresso avanzi e si installino le miniere nei luoghi dove ci sono boschi e sorgenti. E risulta che noi popoli viviamo dove ci hanno buttato, perché ci hanno derubato e cacciato da dove vivevamo prima, e ci hanno imprigionato e anche ammazzato, ma comunque sia, noi resistiamo. E queste terre, il criminale prima non le voleva nemmeno, ma ora sì, le vuole perché sono merce, dicono che l’acqua si può comprare e vendere e che la terra, e l’aria, e il sole, e gli alberi, e gli animali, perfino i più piccoli, e beh, perfino quello di cui è fatto il pozol, è merce.
È il suo modo da criminale che tutto considera merce, perfino le persone, le donne, le creature, gli uomini, la dignità, e quello che non lo è non serve, perché non si può comprare né vendere. Ma la problema non è questo, ma il fatto è che il suo casino lo può fare perché ha un’arma che regola tutto il suo maledetto piano ed è quella che chiamano la proprietà privata dei mezzi di produzione. Cioè, il problema non è che si producano delle cose, ma è chi ha la proprietà di quello che si usa per costruire quelle cose, e a te lasciano solo la tua forza lavoro che ti pagano come merce e male. Allora il criminale distrugge ed uccide grazie a quest’arma che è la proprietà privata, e contemporaneamente fa tutto il suo casino affinché non gli tolgano quest’arma.
Beh, non so come spiegarlo, anche se lo capisco bene, non conosco le parole per dirlo in castigliano o nelle vostre lingue. Ma è più o meno come l’ho detto, ossia c’è il criminale, c’è la vittima fatta passare come colpevole per rubare ed ingannare altri, e c’è l’arma. E la scena del crimine è tutto il mondo. Penso che tutto è stravolto perché la sistema capitalista mondiale ci mette tutto: mette la vittima e lui stesso è l’assassino, l’arma che uccide e distrugge, e la scena del crimine.
Di questo abbiamo parlato col SupGaleano quando ha commesso il reato delle brioche, per il quale è stato punito ed ora a suo carico c’è un altro reato perché ha preso il cellulare del SupMoy e credi che il SupMoy non se ne accorga? Bene, dobbiamo continuare a pensare al problema perché se non fermiamo il criminale tutto il mondo sarà la vittima e non solo le persone, ma tutto, anche gli animali, le piante, le pietre, l’acqua, tutto.
E la problema è anche che non c’è dove imprigionare il criminale, quindi l’unica maniera per fermare il crimine è distruggere la sistema capitalista.
Chiaro, non vi sto dicendo tutto quello di cui abbiamo parlato, cioè la discussione non è completa, non è integra, ma se vi dico tutto, allora quelli che ascoltano e leggono e guardano questo racconto si scervelleranno per pensare a cosa mettersi domani per la festa e il ballo perché finisce un anno e ne comincia un altro, e credono che solo il calendario cambierà le cose, ma per cambiare le cose bisogna lottare, molto, da tutte le parti ed in ogni tempo, senza tregua”.
Holmes e Watson restarono in silenzio fino a che Elías li salutò dicendo: “Bene, devo andare, abbiate cura di voi e non soffrite per gli altri amori, se c’è un domani sarà anche per elloas, con elloas, e per elloas».
E, rivolgendosi a Watson aggiunse: “Se non hai la chiave del ripostiglio, sfonda la porta [gioco di parole in spagnolo: romper el closet significa «fare coming-out» – N.d.T.]. Bisogna venire fuori senza paura, come la Magdalena. O con paura ma controllandola”.
Watson voleva spiegare che lui e Sherlock non erano quello che sembravano essere, ma Elías Contreras, commissione di investigazione dell’ezetaelene, aveva già preso la strada ed il pomeriggio sfumava sotto le ombre di una notte che si indovinava già fredda.
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Ci sono stati giorni, poche lune fa, in cui la bambina Difesa Zapatista aveva deciso di esprimersi verbalmente unicamente con i colori. E non con espressioni del tipo «questo è azzurro» o «questo è arancio» o cose così, ma unicamente con i nomi dei colori. Tutte le teorie del linguaggio e del discorso sono state messe in scacco dall’impertinenza di una bambina indigena e zapatista.
Un giorno, è arrivata nella baracca del SupGaleano e ha detto: “giallo”.
Il Sup non ha nemmeno sollevato gli occhi dal computer ed ha solo detto: “nel giubbotto, tasca destra”.
Difesa Zapatista è andata dove era appeso il giubbotto e dalla tasca destra ha estratto un pacchetto di brioche ed è uscita di corsa dicendo con gioia: «violetto».
Contrariamente a quello che si possa pensare, ogni colore non aveva un significato preciso. Per capire Difesa Zapatista bisognava considerare il suo tono di voce, il contesto in cui lo diceva, dove guardava, l’espressione del suo viso, i gesti e la postura.
Una volta ha detto «giallo» mentre stava andando a scuola, come se fosse diretta al patibolo.
Dice il Sup che fino ad allora sapeva che Difesa Zapatista era una bambina normale e non un organismo cibernetico creato dalla mente perversa del SupMarcos per farci impazzire. L’eredità maledetta di un Moriarty dal naso impertinente, un quesito continuo e noioso avvolto nell’apparente innocenza di una bambina alta solo poche spanne da terra. Un robot la cui fonte di energia non è solare né atomica, ma sono le brioche.
Un pomeriggio qualsiasi, il SupGaleano spiegava a Elías Contreras:
«È una bimba, senza ombra di dubbio. È la cosa più normale del mondo che una bambina che va a scuola lo faccia con il dispiacere, l’angoscia e la disperazione di chi va alla schiavitù di lettere, numeri, nomi e date. Nessuno potrebbe esprimere meglio di lei cosa significa andare a scuola e credo che portare con sé il gatto-cane, anche se nascosto nello zainetto, sia il modo di aggrapparsi al mondo di Difesa Zapatista, che non ho idea che cosa o chi sia, ma lei è felice in quel mondo ed è felice nel suo compito di completare la squadra che, forse, è il suo modo di dire «cambiare il mondo».
Perché lei non sogna di essere una super eroina, qualcuno con super poteri o con una katana che fa a pezzi i suoi nemici che, se fai attenzione, sono sempre maschi. Non si riferisce mai al goal che ha segnato con una tecnica che ha sorpreso tutti e che ha ricevuto le più disparate spiegazioni. Invece, il defunto SupMarcos ricordava sempre, la maggior parte delle volte a sproposito, che quando era alla secondaria aveva segnato un goal. Certo, dimenticando di dire che era sempre in panchina e che solo una volta è entrato in campo e solo perché all’allenatore ne mancava uno, e che l’ha segnato quando è scivolato e, senza volerlo e come dicono i classici, «ha buttato la palla in fondo alla rete».
E neppure fa la parte della principessa perduta che aspetta la salvezza dall’immagine della mascolinità montata su un baldo destriero. In realtà, credo che la sua relazione col Pedrito sia precisamente l’inverso: lei deve aiutare, orientare e riscattare il Pedrito, anche se forse il suo metodo di menare scappellotti non sia il più adeguato.
No, Difesa Zapatista assume il suo obiettivo come qualcosa da compiere in collettivo e non concepisce il suo ruolo come leader o capa, perché ha scelto la posizione meno brillante che potrebbe esserci, quella di difesa, e lo fa per aiutare il cavallo orbo che sta in porta. Il suo lavoro è cercare e trovare chi si unisce, chi lavora in squadra e, nello stesso tempo, è parte della squadra, il ponte per incorporarsi ad essa. E quando considera sullo stesso piano posizioni come quella di raccattapalle, o il cagnolino o gatto-cane che corre storpio, e pone come unico requisito quello di voler giocare, questo è il suo modo di dire «voler lottare».
In Difesa Zapatista non c’è un mondo nuovo, certo, ma forse c’è qualcosa di più terribile e meraviglioso: la sua possibilità.
E quando parla a colori, forse sta provando nuove forme di comunicazione per quel mondo che neppure immaginiamo, ma che lei assume già come da venire, non senza la lotta necessaria e urgente per realizzarlo, dovunque si trovi, in questa nostra dolorosa realtà.
Non immagino niente di più zapatista di quanto sintetizzato nell’azione di questa bambina.
Di questo parlava il SupGaleano ad un Elías Contreras silenzioso e attento. In quel mentre, sulla porta della capanna apparve Difesa Zapatista col pallone in una mano ed il gatto-cane nell’altra e domandò: «rosa?».
«Adesso arriviamo, poi ti raggiungiamo», rispose il Sup. Difesa Zapatista annuì solo con un «nero» e se ne andò di corsa.
Elías Contreras chiese al Sup: “Ma, cosa ha detto?”.
«Non ne ho idea», gli rispose il Sup, mentre decideva se mettersi la maglia dell’Inter di Milano (che, mi dicono, sembra abbiano comprato i cinesi) o quella dell’Atalanta (che sta in quel mercato di giocatori che si chiama UEFA), o quella dei Jaguares de Chiapas (che chi lo sa dove stanno messi) che aveva trovato nel baule dei ricordi del defunto. Alla fine si mise la maglia dell’EZLN con la quale, nel 1999, una squadra di basi di appoggio zapatiste debuttò allo stadio «Palillo Martínez» nella Cittadella dello Sport di Città del Messico, in una partita dove segnarono solo un goal e che il defunto SupMarcos sintetizzò così: «non abbiamo perso, è che non abbiamo avuto abbastanza tempo per vincere».
«In realtà io cerco di indovinare sempre quello che vuole dire. A volte ci riesco, a volte sbaglio. Cioè, come dire, applico il metodo scientifico della prova e dell’errore. Andiamo Elías, credo che dobbiamo andare al recinto del bestiame perché c’è una squadra da completare. Presto si allargherà sì, ed un giorno saremo di più», aggiunse a sua giustificazione il SupGaleano.
Nel recinto del bestiame c’erano già il cavallo orbo che masticava con perseveranza la stessa bottiglia di plastica, il Pedrito che discuteva di qualcosa con la bambina, il gatto-cane che tentava invano di mordere il nuovo pallone che il buon Vlady ha regalato a Difesa Zapatista, e due figure assurde che stavano ai bordi del presunto campo da calcio.
Nessuno lo notò, ma tra Testa di Scopa, Capelli di Tortilla, Elías Contreras e il SupGaleano ci fu uno scambio di sorrisi complici ed un live movimento del capo come saluto.
Difesa Zapatista rideva, mentre il gatto-cane le saltellava intorno cercando di toglierle il pallone.
Il freddo si era attenuato ed il tepore cominciava ad avvolgere il pomeriggio.
E ciò che qui narro, è accaduto in qualche calendario, ma in una geografia precisa: le montagne del sudest messicano.
In fede:
Il gatto-cane.
Guao-miao.
Grazie.
Dal CIDECI-UniTierra.
SupGaleano.
Messico, dicembre 2017
 
Traduzione “Maribel” – Bergamo

 

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