PRELUDIO: GLI OROLOGI, L’APOCALISSE E L’ORA DEL PICCOLO
12 aprile 2017.
Buona sera, buona notte, buon giorno, buona mattinata.
Vogliamo ringraziare i compagni e le compagne del CIDECI-UniTierra e quelli che con generosità fraterna hanno nuovamente offerto questo spazio affinché potessimo riunirci. Ringraziamo anche i gruppi di sostegno della Commissione Sexta che s’incaricano del trasporto (speriamo che non si perdano di nuovo), della sicurezza e della logistica di questo evento.
Vogliamo ringraziare anche quelli che partecipano a queste giornate e che ci accompagnano con le proprie riflessioni ed analisi in questo seminario che abbiamo titolato “I Muri del Capitale, le Crepe della Sinistra”. E quindi grazie a:
Don Pablo González Casanova.
María de Jesús Patricio Martínez.
Paulina Fernández C.
Alicia Castellanos.
Magdalena Gómez.
Gilberto López y Rivas.
Luis Hernández Navarro.
Carlos Aguirre Rojas.
Arturo Anguiano.
Christian Chávez.
Carlos González.
Sergio Rodríguez Lascano.
Tom Hansen.
In modo speciale ringraziamo e salutiamo i media liberi, autonomi, indipendenti, alternativi o come si chiamino; il nostro grazie a loro ed ai loro sforzi per far volare le parole da qui ad altre parti.
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Noi zapatisti abbiamo deciso di cominciare questo seminario, o incontro, che fa parte della campagna mondiale “Contro i muri di sopra, le crepe in basso (e a sinistra)”, per permettere a chi ci seguirà di poter puntualizzare o semplicemente criticare.
Per questo siamo soli a questo tavolo, ci accompagna soltanto Don Pablo González Casanova. È qui per varie ragioni: una è che lui va al di là del bene e del male e, lo ha dimostrato in questi 23 anni, non si preoccupa che lo critichino per la frequentazione di cattive compagnie. L’altra ragione è che dice sempre direttamente quello che pensa. È testimone del fatto che mai gli abbiamo imposto opinioni o approcci, proprio per questo il suo pensiero non solo non coincide con il nostro, anzi, spesso è abbastanza critico. Al punto che il codice con il quale ci riferiamo a lui nelle nostre comunicazioni interne, per non far sapere al nemico che stiamo parlando di lui, è “Pablo Contreras”. Lo consideriamo un compagno, uno di noi, tra noi e come noi. Ci inorgoglisce la compagnia del suo passaggio, la sua parola critica e soprattuto il suo impegno senza dolcezze ne doppiezze.
Le nostre parole di oggi sono state preparate con il Subcomamdante Insorgente Moisés in modo che fili, o almeno questa è la nostra pretesa.
Sappiamo bene che abbiamo fama di essere poco seri e abbastanza irresponsabili, oltre che, chiaramente, irriverenti e sfacciatamente strafottenti; che ci viene voglia di raccontare storie quando l’occasione meriterebbe solennità trascendente e l’accademia esige “un’analisi concreta della realtà concreta”. Insomma, siamo trasgressori della responsabilità, delle buone maniere e dell’urbanità civilizzata.
Ma, nonostante questo, vi chiedo di essere seri perché quello che diremo oggi, provocherà una valanga di squalifiche ed attacchi.
Beh, la sinistra istituzionale si è resa protagonista di un’isteria illuminata pensando ingenuamente di arrivare al potere perché si è rapidamente trasformata in un clone di quanto diceva di voler combattere, compresa la corruzione. Questo progressismo illuminato che ha elevato a concetto di scienze sociali categorie come “complotto”, “mafia del potere” e che prodiga perdoni, assoluzioni e amnistie per i fatti quando vengono dall’alto, e sentenze e condanne quando si tratta del basso. Bisogna riconoscere che questa sinistra illuminata è di una disonestà coraggiosa, perché non teme il ridicolo quando vuole convincere sé stessa ed i fedeli di stagione che “rigenerare” è sinonimo di “riciclare” in ciò che si riferisce alla classe politica ed imprenditoriale.
Quello che vogliamo dirvi oggi è breve e lo faremo esprimendolo in alcune delle lingue originarie del nostro cammino:
Per la lingua chol la Comandanta Amada.
Per la lingua tojolabal la Comandanta Everilda.
Per la lingua tzotzil la Comandanta Jesica.
Per la lingua tzeltal la Comandanta Miriam.
Per la lingua castilla la Comandanta Dalia.
Quello che le compagne e i compagni hanno detto si può tradurre in spagnolo con “vai a farti fottere Trump” ma non voglio dirlo così per non farmi accusare di essere prosaico e volgare. Lo tradurremo allora con un laconico: “Fuck Trump”.
Stabilito quello che è importante e serio da dire in questo seminario o come si voglia chiamare questa riunione diciamo che l’obiettivo principale è quello di dare a Don Pablo Casanova un abbraccio collettivo,passiamo ora ad esprimere il nostro pensiero.
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GLI OROLOGI.
Il tempo, sempre il Il tempo. Orologi. Secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni, lustri, decadi, secoli. Il tic-tac frenetico della bomba del Capitale, il terrorista per eccellenza, che sta minacciando l’intera umanità. Ma anche il tempo come calendario, maniera, secondo ciascuno, secondo la lotta dal basso e a sinistra, resistenza e ribellione.
21 anni fa, nei cosiddetti Dialoghi di San Andrés, disperata perché lo zapatismo doveva consultare anche il minimo accordo con i villaggi, la delegazione governativa interrogava quella zapatista sugli orologi usati. Parola più, parola meno, reclamavano: “Voi parlate tanto del tempo zapatista e portate orologi digitali che segnano la nostra stessa ora”. Allora le risate a crepapelle dei Comandanti Tacho e Zebedeo risuonarono nella piccola stanza dove si tenevano le discussioni.
La risposta zapatista ai governativi fu questa. Da un lato, i membri della Commissione Nazionale d’Intemediazioone, tra gli altri Don Pablo González Casanova e un artista della parola, il poeta Juan Bañuelos, morto pochi giorni fa e che, accompagnando la delegazione nel lungo tragitto fino a La Realidad, insieme al compianto SupMarcos, recitò “I versi del Capitano” di Pablo Neruda, che qualcuno tacciava di essere “poesia troppo politica”. “Questa non è poesia”, argomentava, “è un pamphlet”.
Seguì il silenzio sul percorso. Juan Bañuelos ammirava le montagne, fissando a volte il suo pensiero nella poesia “la posta della selva” nella quale non parla di sé stesso ma di chi era in corrispondenza tra la CONAI e lo EZLN rischiando la vita,la libertà i propri beni nei tempi bui del tradimento zedillista del 1995 (uno di quegli attori, Esteban Moctezuma Barragán, oggi è assolto e promosso a dirigente strategico di punta del “vero cambiamento”).
Mi immagino che, da parte sua, il defunto SupMarcos respirasse sollevato nell’avvistare il territorio zapatista e a volte,in un mormorio premonitore,recitasse per sé stesso i versi della “Lettera sul cammino” di Pablo Neruda, la poesia con la quale chiude “I versi del Capitano”.
“Così questa lettera termina
senza nessuna tristezza:
sono fermi i miei piedi sulla terra,
la mia mano scrive questa lettera lungo la strada,
e in mezzo alla vita sarò
sempre
vicino all’amico, di fronte al nemico,
col tuo nome sulle labbra,
e un bacio che giammai
s’allontanò dalla tua bocca.”
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Sul tema del tempo (il “timming”dicono gli obesi e pigri carri armati del pensiero di sopra), ci hanno voluto criticare e catalogare. Ci hanno detto, ad esempio, che nell’era digitale noi zapatisti siamo come orologi che funzionano a molle e a ingranaggi e che bisogna caricare a mano.
“Anacronistici”, dissero. “Il passato che vuole spiegare”, sentenziarono. “Il ritardo storico”, mormorarono. “Una stronzata della modernità”, minacciarono.
Bene con il nostro solito senso dell’opportunismo,che non come un orologio a corda manuale nell’era degli smartwatch che ti misurano le calorie consumate e utilizzate, il ritmo cardiaco, che ti dicono inoltre se fai i movimenti giusti quando i corpi nudi ripetono la, questa si anacronistica, cerimonia dell’incontro di pelli ed umidità. Questi orologi sono tanto moderni ed avanza ti che a volte si può vedere l’ora.
Certo, questa è un’epoca ove la realtà virtuale supera di molto la realtà vera e qualsiasi imbecille può simulare sapienza grazie al fatto che le reti sociali gli permettono d’incontrare echi egualmente sciocchi e cinici; epoca dove la pretesa originalità si annulla nell’antipatia e rende evidente che l’impertinenza,l’ignoranza e la pedanteria sono una “individualità”condivisa da milioni di nicknames. Come se la stupidità non fosse altro che un essere solitario con molti conti e la misogenia di Calderon e Calderona ha i suoi simili in tutto l’universo dei socialnetwork. Compresi quelli forniti di titolo e dottorati della ben distinta sinistra istituzionale che si riferiscono al portavoce del Cosiglio Indigeno di Governo col sarcastico nomignolo di “la Tornantzin”.
Ma quello che a destra è un delitto perseguibile penalmente,per la sinistra istituzionale diventa un grazioso commento che non merita condanna ma celebrazione. Benché si travesta da unica ed irripetibile l’imbecillità è la più comune e corrente caratteristica umana nello spettro politico di un sopra nel quale le differenze si diluiscono perfino nelle inchieste.
Ma in questa era tecnologica che ci guarda con riprovazione noi zapatisti burloni siamo piuttosto una clessidra.
Una clessidra che, benché non richieda aggiornamenti ogni 15 minuti e di un saldo attivo per funzionare ,deve rinnovare il suo limitato contenuto.
Anche se poco pratica e scomoda, come siamo noi zapatisti, la clessidra ha i suoi vantaggi.
In essa possiamo, ad esempio, vedere il tempo trascorso, vedere il passato e tentare di capirlo.
Possiamo vedere anche il tempo che sta venendo.
Non si può capire il tempo zapatista se non si capisce lo sguardo che si segna nel conto in una clessidra.
Per questo abbiamo portato qui, per questa unica occasione dama, cavaliere, matrona bambina, bambino, questa clessidra che abbiamo battezzato modello “John Snow non sa niente”.
Guardate, apprezzate la perfezione delle sue linee curve che ci ricordano che il mondo non è rotondo, senza dubbio si muove, giri e, come disse a suo tempo Mercedes Sosa, “cambia, tutto cambia”.
Guardatela e capite che non ci capisce ma non importa un peto,perchè non è verso il nostro mondo arcaico che dovete guardare, no.E’oltre che abbiamo bisogno della vostra vigilanza.
Perché capiamo che vi chiedono di porre l’attenzione a quel breve istante in cui un granello di sabbia arriva allo stretto passaggio per poi cadere e sommarsi agli altri che si accumulano in ciò che chiamiamo “passato”.
Perché insinuano, gli consigliano, gli chiedono, gli ordinano: viva il momento, viva questo presente che può convertirsi ancora con la più alta e sofisticata tecnologia. Non si pensi al tempo che sta già nel passato, perché nella vertigine della modernità, “un secondo fa “ è lo stesso di “un secolo fa”.
Ma non ci si affacci su quello che segue.
Noi, chiaro, per forza, appena contrari, da muli (senza offendere nessuno in particolare, a ciascuno il suo) analizziamo e chiediamo al granello di sabbia che, anonimo tra gli altri, aspettando il proprio turno per infilarsi nello stretto tunnel, nel momento stesso che stiamo guardando quello che giace sotto o a sinistra di quello che chiamiamo “passato” chiedendosi l’un l’altro che accidenti hanno a che fare con questa conversazione sui muri del capitale e le crepe di sotto.
E noi, con un occhio sul gatto e l’altro sul garabato, cioè il cane, con il gatto-cane che si converte in strumento di analisi del pensiero critico, e smette di essere la compagnia costante di una bambina che si immagina senza paura, libera, compagna.
Ma l’invito a capire e a cercar di capire o spiegare non è rivolto allo zapatismo. Benché, chiaro, se volete continuare con la vostra lentezza,limitazione e dogmatismo anti o pro ebbene chi siamo noi per impedirlo?
E allora diciamo no, non valiamo la pena, che lo zapatismo è solo una lotta tra molte altre. Forse la più piccola in quanto a numero, impatto e trascendenza.
Sebbene, questo sì, forse la più irriverente in riferimento al nemico scelto, all’ispirazione, al suo obiettivo, al suo orizzonte, al suo testardo impegno nel costruire un mondo che contiene molti mondi,tutti quelli che già esistono e quelli che nasceranno.
Tutto questo mentre, con assurda ostinazione,giriamo una volta ancora la clessidra come volessi dirle, dirci, che questa è la lotta:altro dove non c’è riposo, dove si deve resistere e non spalancare le porte alla prudente codardia che compaiono lungo il cammino con l’insegna “USCITA”.
Nella lotta devi stare attento al tutto e ai particolari,stare pronti,pronte perché quest’ultimo granello di sabbia non è l’ultimo, ma il primo e che la clessidra deve essere girata perché non c’è oggi ma ieri e, se hai ragione, anche il domani.
Ecco quindi il segreto del metodo zapatista per l’analisi e la riflessione: non usiamo un orologio a carica manuale ma una clessidra.
È chiaro che si può sperare in quelli che ora sostengono che in questa epoca, oltre alla logica del denaro, viene globalizzata la signora madre di Donald Trump poiché in tutto il pianeta se la ricordano, la menzionano, insomma la citano.
Qualche volta usiamo una clessidra perché il nostro desiderio di capire non è un interesse accademico, scientifico descrittivo o un tribunale che pensa di giudicare tutto ed opinare su tutto, che è risaputo e confermato dai social network che qualunque idiozia trova seguaci ed entrano nelle greggi di un pastore che a sua volta sta nel gregge di un altro pastore.
No, il nostro interesse è sovversivo. Combattiamo il nemico. Vogliamo sapere come è conoscerne la genealogia, il suo “modus operandi” potremmo dire, seguendo Elias Contreras, ora defunto, che sosteneva che il capitalismo era un criminale e che l’intera realtà mondiale era la scena del crimine e come tale dovrebbe essere analizzata e studiata.
Ora succede che le tracce lasciate da Elias Contreras, quelle del defunto SupMarcos, quelle che noi zapatisti andiamo lasciando a voi, dama, cavaliere, altroa, bambina, bambino, giovani anche se non nel calendario, ma nello sguardo, sono tutti segnali per un cammino comune.
Il trucco, l’abilità, come dice il SubMoy, ”la magia”come diceva il SupMarcos sta nel fatto che queste tracce non ci fanno incontrare, non ci si scopra. Secondo questo appunto che ho trovato nel baule dei ricordi del SupMarcos e che ora rileggo sconcertato, fanno si che non si incontri solo lo specchio ma si costruisca la risposta alla domanda apocalittica che vi prenderà a schiaffi in faccia senza importanza di colore, genere o transgenere, la convinzione o non convinzione, le vostre fobie politiche e ideologiche, il vostro modo d’essere il tempo, la geografia.
La domanda che annuncia l’apocalisse più terribile e meravigliosa: E tu che?
L’apocalisse che, secondo quanto racconta la autodenominatasi Difesa Zapatista, è di genere.”Va col suo conto di uomini stronzi” sentenzia, capiti o no a sproposito questa bambina che sogna di completare la sua squadra di calcio.
“È tutto preciso anche se il pallone è un po’ ammaccato, come lo avessero picchiato sulla testa, è pieno di bernoccoli”, mi risponde la bambina ad una domanda che non avevo neanche pensato.
“È chiaro che devo completare la squadra, ma non preoccuparti Sup, stiamo già crescendo, a volte ci vuole tempo, ma stiamo aumentando”, mi dice cercando di tranquillizzarmi mentre nel caracol aspettiamo inquieti che trovino la squadra di appoggio che si è smarrita.
Il Subcomandante Insorgente Moisés mormora “mm, credo che dobbiamo fare una squadra di appoggio per la squadra di sostegno perché gli capita sempre qualcosa,mentre Difesa Zapatista cerca di convincermi a trovare tra voi un prospetto per scorrazzare dietro un pallone informe attraverso un allevamento pieno di zecche y una que otra nauyaca che da qualche giorno sta brillando per l’acqua di una pozzanghera da una pioggia cui ,per certo, manca l’orologio perché in aprile non aveva niente da fare.
Le indicazioni che ricevo dalla bambina sono lontane dall’essere semplici. La squadra non ha bisogno di un portiere, posizione che so occupata da un vecchio cavallo storto che si differenzia dagli altri perché non ha cavezza né marchio, né nessun padrone e mastica senza preoccupazione una bottiglia vuota di plastica nella quale non si nota la marca di una conosciuta bibita di cola.
La posizione di difesa è ovviamente coperta.E la squadra ha un’ala sinistra che pare un gatto… o un cane che qui si ferma il mouse del computer del SubMoy e qui c’è il Monarca che lo insegue gridando “cane stronzo!” e l’insorgente Erika chiarisce che non si tratta di un cane, e il Monarca “gatto, allora”. “Nemmeno”, dice Erika che vuole solo assicurarsi che il gatto-cane scappi illeso, e ci riesce.
Anche Pedrito fa parte della sempre incompleta formazione che secondo quanto capisco dallo schema che Difesa Zapatista dispiega di fronte a me è una specie di libero multi funzionale. “Pedrito obbedisce a casaccio”, mi spiega, “un giorno vuol fare il portiere, un altro l’attaccante, il difensore non se lo sogni” avverte la bambina. Poi aggiunge “ma gli uomini stronzi son di per sé, prima dicono una cosa ed un attimo dopo il contrario” mentre mi guarda con gli occhi socchiusi e fa la sua miglior faccia da “Fuck Trump e fatti da parte per non sporcarti e vedrai”.
Prima di partire Difesa Zapatista mi riassume: “Ho sentito Sup, non chiunque eh, ci deve essere disciplina e lotta perché poi si scoraggiano in fretta e nella squadra resta solo resistenza e ribellione”. Non volevo disilluderla ma il solo requisito di disciplina taglia fuori tutte le squadre di appoggio e si lodano tutte e a tutti, tutte e tuttie lei presenti, cominciando, è chiaro, da Pablo Contreras qui presente.
Per il defunto SupMarcos, secondo il mio interesse dopo la sua morte ed il recupero delle sue lettere,l’apocalisse non è lo specchio ne la domanda, bensì la risposta. “Qui”, scrisse con la sua brutta calligrafia da bambino poco diligente e perennemente rimproverato, “Qui è dove il mondo finisce… o comincia”.
Tornerò in un’altra occasione su questi fogli macchiati dall’umidità e dal tabacco contenuti in un baule di tela corrosa e rotta che il SupMarcos mi consegnò pochi momenti prima della sua morte con una frase laconica: “guarda”.
La stessa frase me la aveva ripetuta mentre scendeva dal chiosco de La Realidad sulla terra ancora calda del sangue del mio fratello morto, il maestro Galeano, quando, come premonizione di quanto sarebbe avvenuto dopo, l’unica luce era quella della pioggia che rompeva la logica di quel maggio già passato dai calendari.
No, non parlerò di quello scritto. O meglio, non ancora. E nemmeno di quello che ho appena finito di trovare e che, come sfida, ha questo non breve titolo: “Di come Durito ha deciso di abbracciare la nobile professione di Cavaliere Errante e cominciò a correre per il mondo riparando torti, soccorrendo l’indifeso, riscattando l’oppresso, appoggiando il debole e strappando sospiri libidinosi alle caste donzelle. Rapporti, presupposti senza compromessi e ritrattazioni in Hojita de Huapac #69”.
Sì, concordo con voi è un titolo modesto quanto il suo autore.
Ma non ve lo leggerò ora,non perché non voglia ascoltare le risate che provocherà questa storia, scritta di proprio pugno dal defunto e con il solo chiarimento di data e ora: “Accampamento Watapil Sierra di Almendro, aprile 1986”, si riesce a leggere,sono passati 30 anni,soltanto perché ora non è il caso.
Vi starete certamente incazzando chiedendovi perché la sto tirando così lunga, se né-mais-colombe-arance-marce-pulci-dispari-nella-torta, che ora non vi leggo nemmeno la storia dal titolo breve e altrettanto eloquente, ma lasciatemi però dire che queste carte trovate nel baule del SupMarcos mi fecero ricordare di altro accaduto quando nell’orologio de La Realidad non si celebrava ancora l’ora della sua morte:
Il SupMoy e l’ormai defunto SupMarcos tornavano dalla riunione con il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno-Comando Generale dello Ezln, svolta in uno dei galerones del caracol de La Realidad, e mi mandarono a chiamare.
Capii che era scoccata l’ora nei due orologi che il defunto portava da 1 gennaio 1994. Sapevo che la sua morte era già stata decisa ma non sapevo quando. Il fatto che mi mandassero a chiamare una cosa soltanto: la morte era imminente e mi avrebbe dato le ultime istruzioni prima che nascessi.
Il SupMoy dovette ritirarsi e rimasi sola con il SupMarcos.
Mi consegnò una piccola valigia di tela, vecchia, rappezzata senza dirmi niente di più.
Domandai cosa farne, mi rispose che lo avrei saputo quando sarebbe venuto il momento. Annuii in silenzio.
Dopo mi diede le indicazioni sull’ubicazione di una buca in montagna dove, mi disse, conservava alcuni libri.
Mi tornano ora in mente:Le antologie poetiche di Leon Felipe e Miguel Hernandez, il Gitano romantico di Garcia Lorca,i due tomi del Chisciotte,i “versi del Capitano”di Pablo Neruda,una edizione bilingue dei Sonetti di William Shakespeare,”Storie di Cronopios e di Famas” di Julio Cortázar e altri che ora non ricordo.
Mi sembrò stravagante che nelle sue ultime volontà trovasse posto nel suo pensiero il riscatto di alcuni libri probabilmente già fatti a pezzi dall’umidità e dalle formiche.
Devo aver fatto qualche gesto perché si sentì obbligato di spiegare: “Non c’è solitudine più disperante di quella di un libro senza lettori”.
Non aggiunse altro, io mi limitai a copiare in codice i dati della bucalettere.
Poi, alla sua maniera, mi domandò, per le indicazioni finali: “Dubbi, domande crucci, discordanze, citazioni alla menta o altro?”
Restai pensierosa.
“Ho una domanda”, gli dissi, ma non perché l’avessi, bensì per prender tempo e poter pensare ad altro.
Lui rimase in silenzio.
E, non so perché, gli chiesi di Durito.
Sì, lo so, avrei dovuto chiedere di altre cose, ad esempio le ragioni della sua morte, o la
domanda sempre urgente “cosa accadrà”? E invece no, gli chiesi di Durito.
“Perché hai scelto come personaggio un insetto? Il Vecchio Antonio capisco, anche i bambini e le bambine, ma un insetto? E peggio ancora, uno scarafaggio! Gli scarafaggi che ci sono qui sono quelli che fanno il nido negli escrementi e lì allevano i figli”.
Lui accese la pipa e, tra una boccata di fumo e l’altra, rispose:
“In primo luogo, come capirai in pochi minuti, quelli non sono i personaggi, ma io. E per quanto riguarda Don Durito, è il “piccolo”, il debole e insignificante che si solleva, si ribella e sfida tutto, persino il suo destino imposto”.
“Per quel che riguarda lo sterco, gli scarafaggi non sono gli unici sulla terra a lavorare con lo sterco e ad usarlo anche per le case. Anche gli indigeni. Beh, almeno prima della nostra sollevazione”.
Sì, parlammo di altre cose, non perché fosse un interrogatorio, ma perché l’inizio del funerale stava ritardando e il SupMarcos come solito si metteva a chiacchierare mentre pensava ad altro, come se avesse bisogno di occupare i suoi pensieri in vari modi per risolvere il problema principale.
Queste altre cose ve le racconterò, forse, in un’altra occasione. O no, chissà.
Ma la storia del legame tra lo scarafaggio e gli indigeni zapatisti, forse lo capirete meglio nelle storie che seguono per voce del SupMoy.
Passo quindi la parola al nostro capo e portavoce, il Subcomandante Insorgente Moisés, che di recente si è recato nel profondo della Selva Lacandona, dov’è andato per spiegarci perché il mondo capitalista assomiglia a una fattoria recintata da mura.
Molte grazie.
Sup Galeano.
Messico, aprile 2017.
Traduzione a cura di 20zln
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