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Palabra del Ejército Zapatista de Liberación Nacional

Jul152015

Chiapas, Messico, Mondo. (frammento del testo “Una Guerra Mondiale” (maggio-giugno 2015), del SupGaleano, ne «Il Nostro Sguardo sull’Idra”, parte II del volume I de “Il Pensiero Critico dinanzi all’Iidra Capitalista”)

Chiapas, Messico, Mondo.
(frammento del testo “Una Guerra Mondiale” (maggio-giugno 2015), del SupGaleano, ne «Il Nostro Sguardo sull’Idra”, parte II del volume I de “Il Pensiero Critico dinanzi all’Iidra Capitalista”)

Dapprima richiamò la nostra attenzione il chiasso di proteste e voci di disaccordo nelle reti sociali. Poi quel che riusciva a trapelare dalle pagine della stampa prezzolata indipendente. Allora una squadra di Tercios Compas venne inviata a confermare o smentire dati.

Se con la tua telecamera prendi una serie di immagini «in situ» di una delle principali città del sudorientale stato messicano del Chiapas, ti renderai conto del disordine, dell’abbandono e del caos che vi regnano.

Ma se, nel tempo, dai lo “zoom out” al grandangolo, inizierai a notare una certa logica e un ordine all’interno di quel caos.

Orbene, se combini una vista panoramica nel tempo e nello spazio, avrai un’immagine abbastanza vicina alla realtà. Non a quella che è rappresentata, ma a quella che si riferisce alla genealogia di quell’immagine. Ovvero, fa’ che l’immagine incorpori il prima, il durante e il dopo.

Prendiamo per esempio la città capitale del Chiapas, la città di Tuxtla Gutiérrez. Fondata originariamente dagli zoque, conquistata poi dai mexica, fu da questi denominata “Tochtlán”, “luogo o casa dei conigli» o «dove abbondano i conigli». Poi fu “Tuchtlán”. La conquista spagnola castiglianizzò la parola e la rese «Tuxtla». Poi avrebbe preso il cognome del generale Joaquín Miguel Gutiérrez Canales. Per un certo tempo contese a San Cristóbal de Las Casas il dubbio onore di essere la capitale dello stato.

Nell’immagine che catturi c’è di tutto, meno che la coerenza: presunte opere urbanistiche, realizzate senza capo né coda, senza segnalazioni, senza strade alternative; strade che di tali hanno soltanto il cartello che le nomina; grandi palcoscenici in cui il «biondo di rango» Manuel Velasco Coello, o qualcuno dei suoi complici ripete che mantengono le promesse, mentre le principali vie di comunicazione erano o sono distrutte.

Se ti prendi il tempo di percorrere le strade della città, noterai quell’irrazionalità e ti porterà a pensare che sì, che davvero bisogna essere un imbecille per realizzare opere del genere. Potresti perfino pensare che chi governa il Chiapas non sia che un mucchio di imberbi puberi e idioti che giocano, e male, a Simcity nelle città di Tuxtla, San Cristóbal y Comitán. E non ti mancherebbero né la ragione né gli argomenti.

Le «opere di urbanizzazione» hanno fatto fallire decine di piccole e medie imprese; hanno trascinato nella disoccupazione migliaia di chiapanechi; hanno provocato incidenti mortali, e sono responsabili di più di una disgrazia nelle famiglie chiapaneche per il ritardo nel transito delle ambulanze. I danni «non quantificabili» in veicoli e tempo sono molto grandi.

Di più: le uniche piccole imprese che sono sopravvissute a questa guerra urbana sono quelle di vulcanizzazione, che distribuiscono pneumatici e ammortizzatori, e le officine meccaniche. Le opere viarie che sono state terminate sono contornate da cartelli di «vendesi» e «affittasi», e da edifici abbandonati e fiammanti nuove costruzioni.

Sarebbe comico se non fosse tragico.

Se parli con qualche medio o piccolo ex-imprenditore e costui ti racconta come si sono opposti, pungolati dal governo municipale e statale, alle mobilitazioni dei maestri democratici, ti dirà:

«Abbiamo fatto cose ridicole. Noi protestavamo perché le marce e i blocchi dei maestri facevano scendere le nostre vendite, e il risultato è che il governo con le sue opere ci ha portato in rovina. Guardi, tutto il circuito era di piccolo e medio commercio, e tutti sono falliti. Ora ci sono imprese straniere e abbondano i franchising. La città si chiuse letteralmente, come se fosse assediata, ma non sono stati i maestri, né gli zapatisti: è stato il governo. Sì, i maestri bloccavano per alcune ore, un giorno, una settimana. Il governo ha chiuso il transito per la città per quasi un anno e da alcune parti non si può ancora transitare. Mi dica lei, che commercio o impresa può tener duro tanto tempo? Solo i grandi, quelli che hanno il capitale per sostenere il ribasso di vendite. O chi si indebita tanto che ora sta lavorando per pagare alla banca il prestito che gli venne concesso per lavorare. Sì, assurdo. Ora si lavora per pagare la banca che ci dà prestiti allo scopo di lavorare per ripagarli. Abbiamo dovuto chiudere, licenziare, vendere. Guardi, quel luogo in cui ora c’è un franchising, è stato della mia famiglia per decadi. E ci dissero sempre che dovevamo aver paura dei rivoltosi, poi dei maestri, poi degli zapatisti, poi un’altra volta dei maestri, sempre dei maestri. Perché ci volevano rubare il nostro, spaccare, saccheggiare, mandare in rovina. Così ci dissero. E chi alla fine ci ha derubato, ci ha spaccato (indica la strada rotta, peggiore di un sentiero di terrazzamenti), ci ha saccheggiato e rovinato, sono stati i governanti. Non importa di quale partito. Qui hanno detto che sono del PRI, del PAN, del PRD, del Verde Ecologista, di quel che gli pare e piace. Ma sono sempre gli stessi: i Sabines, i Velasco, gli Albores, gli Orante. Un giorno sono di un colore e l’altro giorno sono di un altro colore. E noi servili a mettere i nostri cartellini tipo «Domandiamo l’applicazione dello Stato di Diritto» perché il governo potesse reprimere adducendo che noi lo esigevamo. E chi ha finito per rovinarci fu il suddetto «Stati di Diritto». Denunciare? Dove? Se i media locali sono comprati e i nazionali si prendono anche loro la loro parte. Se ce n’è uno o l’altro dei locali che si arrischia e tira fuori qualcosa, può poco o nulla contro i grandi media, che non sono poi tanto grandi, e sono alla stregua di portavoce del governo di turno: prima furono Alboristi, poi Mendeguchiisti, poi Sabinisti, e oggi sono Velasquisti, e domani qualche altra cosa ma sono e saranno sempre degli svergognati. No, non c’è problema, a me che mi importa, poniamo, che sia della CANACO locale, se il problema grave che ho è come pagare i debiti con la banca. Ho già venduto tutto e non mi dà più nulla, e non c’è da dove cavare altro. Da tanta paura che abbiamo avuto dei poveri, sono stati altri i più ricchi e il governo chi ci ha fottuto.

Vada, giri dove sia sia. Vedrà che non le mento. Ci sono cartelli che annunciano che il governo ha pavimentato la tale strada e invece non han nemmeno riempito le buche. Una fregatura, una fregatura totale. Noi con la paura per quelli di di sotto, e sono venuti a conquistarci quelli di sopra da altre parti. Impiego con le nuove imprese? Menzogna. Queste imprese vengono con il loro gerente, amministratore, contabile, capo ufficio. Al massimo contratteranno qualcuno che guardi il parcheggio. Non contrattano nemmeno le imprese locali di pulizia. Arrivano imprese di sicurezza e di pulizia dalle altre parti. Questa città non è più quella che era, e non tornerà più a esserlo. E’ peggiorata. Ogni volta è sempre meno chiapaneca».

In effetti, la città capitale cambia volto: al posto delle sue imprese originali, appaiono da ogni dove nomi di franchising e grandi imprese commerciali. Nei centri commerciali, le piccole imprese che commerciano al minuto chiudono quasi immediatamente e sono supplite da altre. Agli incroci un esercito di lavavetri, venditori ambulanti di quel che sia, si affollano intorno ai veicoli chiedendo dovunque sia una moneta. L’immagine si ripete nelle altre città chiapaneche… e nel resto del volto urbano del paese.

Sono stupidi e imbecilli quelli che governano qui, e da ciò questo caos?

Sì, lo sono.

Ma il disordine urbano e di insediamenti non si deve a questa stupidità comune, sebbene con sigle e colori cangianti.

Quel che è accaduto e sta accadendo qui è una distruzione propositiva. Il piano non viene dal molto limitato coefficiente intellettuale di chi dice di governare (o aspira a farlo), dalla sua illimitata ambizione a rubare, dalla sua ancestrale corruzione. Viene da più su. Questi che governano sono solo amministratori che guadagnano una stecca per la distruzione, e un’altra stecca per la ricostruzione. Le grandi imprese immobiliari e usuraie, dove appaiono anche i nomi della classe politica locale, attendono a che le opere urbane, lente di proposito e senza alcuna logica razionale, sconvolgano la fragile economia locale e obblighino la «gente bene» locale a vendere. Attendono poi a che le opere si concludano a loro piacimento. E zac: quel che hanno comprato a dieci, ora vale mille. Chiaro, bisogna dare qualcosa all’autorità, quella che ha incarichi e quella che cerca posto. Perché, se non per la pubblicità e per la compravendita di voti?

Una vera conquista è quel che si è realizzato, e l’impoverimento risultante non è solo degli indigeni, né solo dei lavoratori e coloni. Ora un’assottigliata classe media deve scegliere tra la burocrazia governativa o partirica, il lavoro mal pagato, o l’esilio.

Ma non è solo in Chiapas.

In Messico gli analisti di sopra si spettinano le loro curate capigliature vedendo come le riforme, tanto applaudite da loro, l’unica cosa che hanno ottenuto finora è disordinare ulteriormente la caotica economia nazionale.

Si lamentano, per esempio, che la riforma energetica non abbia apportato i rimedi immediati che promettevano. Ma le riforme avevano precisamente quell’obiettivo: disordinare e distruggere.

La riforma energetica, per esempio, non è che il campanello d’allarme per un’impazzita corsa alla spoliazione. E non parliamo soltanto dei territori sotto custodia dei popoli originari. Ci riferiamo anche ai fondi pensione, ovvero alle pensioni della classe lavoratrice.

Alla fine, si capisce che là sopra ci sia ancora chi crede che nelle riforme c’è la salvezza del Messico. O che è solo la vendita del patrimonio nazionale.

Ma di sotto deve restare chiaro che l’obiettivo delle riforme è concludere la distruzione di quel poco che resta in piedi… perché sia ricostruito e ripopolato.

La guerra urbana che ha modificato il «volto» delle città non ha solo come obiettivo i terreni e le costruzioni. I servizi sono il piatto forte. La somministrazione di acqua potabile è gestita con calcolata perversità: la scarsità alimenta il sorgere di imprese di pozzi d’acqua che soppiantano le tradizionali e vanno monopolizzando poco a poco il mercato. Così come l’acqua: il trasporto, le comunicazioni, la sicurezza e perfino la spazzatura.

E da qui un’asserzione: l’argomentazione fallace che è solita «sostenere» la necessità della privatizzazione dei servizi è che così migliorerà il servizio, sarà più economico e di miglior qualità.

Non c’è un solo caso che suffraghi questa affermazione. Tutti i servizi privatizzati sono più cari, di peggior qualità e pessima attenzione.

Abituata che la povertà e la disgrazia appartenevano sempre a un’altra geografia e un altro calendario, la mal chiamata classe media comincia a rendersi conto che il suo posto è sempre più tra le vittime e non tra gli spettatori (nel ruolo del boia mai, pur sospirando per esserlo).

Il processo di urbanizzazione, lento se fosse razionale, è ora una follia. Come se una guerra stesse operando e, al posto dei blindati, fossero le macchine da costruzione quelle che, paradossalmente, distruggono. Se un ragionamento logico sarebbe: crea i servizi e poi urbanizza, la realtà è il contrario: urbanizza e poi pensi ai servizi.

Qui si può scegliere: attribuire questo caos all’imperizia, la corruzione e la stupidità di chi governa, o a un caos amministrato per poi riordinare.

La prima opzione farà che la maggioranza della popolazione cerchi cambiamenti nei colori, con la speranza che arrivi al governo qualcuno che non sia tanto stupido, tanto ladro e tanto idiota, e che le città recuperino l’immagine idilliaca del passato. Quello ieri nel quale i problemi erano fuori e il focolare domestico non era anch’esso un prolungamento dell’incubo.

In questa opzione appariranno gli stessi cognomi della classe politica, adducendo esperienza e maturità, ma sotto nuove sigle. E siccome le decisioni sono sui colori e le promesse, ebbene, se ha sbagliato il rosso, buttiamoci sull’azzurro, il verde, il caffè, l’arancio, o chi appaia man mano con il vecchio vestito di nuovo.

Qui il problema è amministrativo. Così, i problemi sociali non sono dovuti a un sistema ma a una cattiva amministrazione, o corrotta, o stupida, o, come in Messico, dai tre aggettivi insieme.

Per questa scommessa di sopravvivenza ci sono i calendari. In ogni periodo si può tentare un cambio di colore, vedere se funziona. Ma la vita prosegue il suo corso e le necessità basilari non si assoggettano ai calendari elettorali. E allora ci si rivolge a chi offre di risolvere il problema immediato, anche se prevede la rovina del proprio futuro.

Perciò si capisce che la gente comune reagisca così. O non lo si capisce e la si considera ignorante, senza dignità, coscienza, vergogna.

Così si decide di partecipare o no. Con infiammata passione, si tifa proprio il colore come se si trattasse di quello di una squadra sportiva. Si assiste al gioco, si grida e ci si agita. Termina il gioco, e chiunque abbia vinto o perso, la vita prosegue il suo corso. E così via fino al gioco successivo.

Non si tratta di giudicare, ma di capire. E qui c’è un problema che richiede del pensiero critico, sebbene non si tratti solo di arrivare a una conoscenza scientifica, ma di definire una strategia di resistenza, di sopravvivenza, di vita.

I problemi sociali, si devono a una mancanza di capacità amministrativa, di lavoro politico, di probità, di visione di Stato? O sono conseguenza ineludibile di un sistema sociale?

Ovvero, le decisioni fondamentali, quelle che orientano la direzione di una società per così dire nazionale, continuano a essere nella sfera dello Stato, del governo, dell’amministrazione pubblica?

E anche solo i palliativi, le consolazioni di «corto respiro», sono possibili?

In buona parte del mondo, il problema è stato ubicato nell’amministrazione pubblica. Ed è quasi unanime la diagnosi che si tratti di un problema di corruzione degli apparati governativi.

Ma qui il problema è che, per combattere la corruzione, non c’è una bandiera definita politicamente. Contro la corruzione amministrativa c’è la destra, la sinistra e la politica «indipendente». Tutti si affannano per offrire probità e onestà… e tutti finiscono per essere colpiti da qualche scandalo.

E qui viene fuori una domanda fondamentale, pensiamo noi zapatisti: lo Stato Nazione, cioè lo Stato così come lo conoscevamo, è rimasto intoccato nella guerra del sistema?

O siamo dinanzi a un ologramma, una immagine di quel che è stato, una figura di cartapesta nella quale diversi personaggi mettono la faccia per la foto di stagione?

O né l’una né l’altra: lo Stato Nazionale non è più quel che era, ma mantiene una qualche resistenza dinanzi ai poteri sovranazionali?

Quando i rappresentanti di un qualche stato europeo, diciamo della Grecia, si siedono a parlare con la signora Angela Merkel, stanno parlando con il Bundestag o con il Fondo Monetario Internazionale… o con la Banca Centrale Europea… o con la Commissione Europea… o con tutti e 4… o con nessuno?

E per poter conoscere la risposta, pensiamo, abbiamo bisogno di ricostruire la genealogia dello Stato Nazione, e confrontare il risultato con la realtà attuale. E quindi fare domande:

Quali sono le sue basi, e quali si mantengono, quali sono scomparse, quali sono mutate?

Quali furono le sue funzioni, il suo posto, la sua area di influenza, la sua area di interesse?

Perché a prima vista pare evidente che alcune delle sue caratteristiche principali giacciono ormai come vittime della guerra in corso. E’ ogni volta più difficile parlare di sovranità, di territorio, di autorità, di monopolio della violenza, di dominazione giuridica, di indipendenza.

Chiaro, bisogna fare attenzione alle evidenze, ma la chiarificazione dello Stato è necessaria, e urgente.

Oh, si, mi dispiace, ma questa cosa de «Lo Stato» è molto più complicata delle vie contorte del Game of Thrones.

*-*

(…)

(prequel e sequel nel volume uno de «Il Pensiero Critico dinanzi all’Idra Capitalista»)

 

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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