A chi di dovere,
Sono io un evaso,
Non appena nato
In me m’hanno chiuso
Ma sono scappato.
Mi cerca la mia anima
Per monti e per mari,
Che mai la mia anima mi possa trovare.
Fernando Pessoa
Scrivo questa mia mentre da una parte mi giungono i comunicati dei nostri compagni sui preparativi dell’avanzata delle nostre unità e dall’altra viene bruciato l’ultimo mucchio di lettere a cui non ho risposto. Vi scrivo a questo proposito. Mi sono sempre riproposto di rispondere a ognuna delle lettere che ci arrivano. Mi pareva, e mi pare ancora, che fosse il minimo che potessi fare per contraccambiare tutta quella gente che si è presa il disturbo di scriverci e che ha corso il rischio di metterci nome e indirizzo in attesa di una risposta. La ripresa della guerra è imminente. Non potrò più conservare queste lettere, devo distruggerle perché, se cadessero in mano al governo, potrebbero causare problemi a tanta brava gente ed a pochissima cattiva. Ecco che le fiamme crescono e i colori cambiano, a volte in un azzurro cangiante che illumina questa notte di grilli e lampi lontani che si avvicinano a un freddo dicembre di profezie e conti in sospeso. Si, erano molte. Sono riuscito a rispondere a tante, ma non appena riuscivo a scemarne una pila, ne arrivava subito un’altra cesta. “Sisifo”, mi chiamavo. “O l’aquila che divora il fegato di Prometeo”, aggiunge il mio alter ego, sempre così puntuale nel suo velenoso scetticismo. A dire il vero, devo confessare che ultimamente, il sacco che arrivava si faceva sempre più piccolo. All’inizio incolpavo quei ficcanaso del governo, ma a poco a poco mi sono reso conto che la gente, per quanto buona possa essere, si stanca … e smette di scrivere … e, a volte, smette di lottare …
Sì, lo so che scrivere una lettera non è come dare l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma a noi faceva viaggiare lontano … Un giorno eravamo a Tijuana, un altro a Mérida, a volte in Michoacán, o in Guerrero, o in Veracruz, o in Guanajuato, o in Chihuahua, o in Nayarit, o in Queretaro, o a Città del Messico. Altre volte andavamo più lontano: in Cile, in Paraguay, in Spagna, in Italia, in Giappone. Bene, basta con questi viaggi che ci strappavano più di un sorriso e che scaldavano notti di fredde veglie e rinfrescavano giorni di caldo afoso.
Vi dicevo che mi ero ripromesso di rispondere a tutte le lettere e noi, cavalieri erranti, sappiamo mantenere fede alle promesse (a meno che non siano d’amore), e così ho pensato alla bontà che renderebbe più lieve la mia pesante colpa se tutti voi accettaste che vi rispondessi con un’unica e significativa missiva, nella quale voi sareste i particolari destinatari di una così irregolare corrispondenza.
Quindi, poiché gioca a mio favore il fatto che non potete protestare o manifestare il vostro disaccordo (potete farlo ma io non lo saprei e visto che la corrispondenza ecc. …. quindi sarebbe inutile), allora procedo lasciando sfogo alla folle dettatura che s’impadronisce della mia mano destra quando c’è da scrivere una lettera. E quale miglior modo di iniziare con i versi di Pessoa, che sono maledizione e profezia, e che dicono così …
Il guardare, che sta guardando
Dove non vede, si volta:
Noi due stiamo parlando
di quanto non si è conservato.
Ciò sta finendo o inizia?
Un giorno del mese dell’ineffabile anno 1994.
A chi di dovere.
Vorrei dirvi alcune cose riguardo a quanto è successo da gennaio ad oggi. La maggioranza di voi ci ha scritto per ringraziarci. Immaginate la sorpresa quando leggiamo le vostre missive in cui ci ringraziate di esistere. Io, per esempio, che la massima effusione che ricevo dalle mie truppe è un gesto di rassegnazione quando arrivo a una delle nostre postazioni, mi sorprendo sorprendendomi, e quando mi sorprendo nella sorpresa mi possono accadere cose imprevedibili. Mi succede, per esempio, che mordo troppo la pipa e rompo il bocchino. Succede, per esempio, che non trovo niente poi per aggiustarla. Succede, per esempio, che cercando un’altra pipa trovo qualche dolcetto e commetto il grave errore di provocare quel rumore tipico dei dolci avvolti nel cellofan e che quelle piaghe che chiamano «bambini» riescono a sentire a decine di metri di distanza, a chilometri se hanno il vento a favore. E succede, per esempio, che mentre alzo il volume del registratore per cercare di soffocare il rumore del cellofan con una canzone che fa …
Chi ha una canzone
avrà una tempesta,
chi ha compagnia,
la solitudine. Chi che segue la buona strada
avrà sedie pericolose
che lo invitano a fermarsi.
Ma la canzone vale la pena
di buona tempesta,
e la compagnia vale la solitudine,
vale sempre la pena
l’agonia della fretta
anche se è piena di sedie
la verità
appare nella stanzetta (perché tutto ciò solitamente succede in una stanzetta col tetto di cartone, di paglia o di nylon) Heriberto, con la faccia di “ti ho beccato!”, ed io faccio finta di niente e fischietto il motivo di un film di cui non ricordo il titolo, ma che era buono per il protagonista perché una ragazza (….) gli si avvicinava sorridendo, e io mi accorgo che non è una ragazza ad avvicinarsi, ma è Heriberto. Insieme a lui c’è Toñita col suo bambolotto. Toñita, quella del bacio negato perché “punge”, quella dei denti cariati che compie cinque anni ed entra nei sei, la beniamina del Sup. Heriberto, lo strillo più rapido della Selva Lacandona, il disegnatore di anatroccoli anti-Sup-marini, il terrore delle formiche mulattiere e del cioccolato natalizio, il beniamino di Ana María, la punizione che qualche dio rancoroso ha inferto al Sup per essere un trasgressore della violenza e un professionista della legge. Cosa? Non era proprio così? Vabbè, non preoccupatevi…
Attenti! Ascoltate ciò che vi dico! Allora, arriva Heriberto e mi dice che Eva sta strillando perché vuole vedere il cavallo cantastorie e il maggiore non glielo fa vedere perché sta guardando il Decamerone di Pasolini. Naturalmente Heriberto non dice che è il Decamerone, ma io lo intuisco perché Heriberto dice, testualmente: “Il maggiore sta guardando le donne nude”. Per Heriberto ogni donna che porta la gonna all’altezza del ginocchio o poco più in alto è “nuda”, e ogni persona di sesso femminile che abbia più di quattro anni appena compiuti da Eva è una “donna”. Lo so che si tratta solo di uno sporco trucco di Heriberto per impadronirsi del dolce il cui cellofan ha risuonato come la sirena del Titanic in mezzo alla nebbia, ed Heriberto coi suoi anatroccoli è partito per salvarlo, perché non c’è niente di più triste al mondo di un dolcetto senza un bambino che lo salvi dalla sua prigione di cellofan.
Toñita scopre, invece, un coniglietto “a-prova-di-fango”, ossia nero, e decide di immergerlo in una pozzanghera che, secondo lei, ha tutte le caratteristiche necessarie per una prova di qualità.
Di fronte all’invasione “del quartier generale dell’ezetaelenne” io faccio l’indiano e mi fingo mooolto concentrato su quello che sto scrivendo. Heriberto se ne accorge e disegna un’anatra che intitola, in modo irriverente “Il Sup”. Io mi offendo perché Heriberto aggiunge che il mio naso è come il becco dell’anatra. Toñita posa su una pietra il coniglietto infangato accanto al pupazzo e li guarda con occhio critico. Penso che non sia molto soddisfatta del risultato perché muove la testa negativa con la stessa ostinazione come quando mi nega un bacio. Heriberto, di fronte alla mia indifferenza, pare darsi per vinto e si ritira ed io sono soddisfatto del mio trionfo, quando mi accorgo che il dolce non c’è più e allora ricordo che, mentre guardavo il disegno, Heriberto ha fatto uno strano movimento. Me lo ha portato via da sotto il naso! E guardate che con questo naso, non è cosa da poco. Sono depresso, e ancora di più quando mi accorgo che Salinas sta impacchettando le sue cose per andare alla presidenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e mi viene in mente quanto è stato ingiusto quando ci ha affibbiato l’epiteto di “trasgressori”. Se conoscesse Heriberto si accorgerebbe che, in confronto, noi siamo più legali del gruppo dirigente del PRI. Bene, eravamo rimasti al punto in cui io mi sorprendevo sorprendendomi nel leggere nelle vostre lettere quei “grazie” che a volte erano rivolti a Ana María, a Ramona, a Tacho, a Mario, a Laura, o a qualsiasi tra gli uomini e le donne che si coprono il volto per mostrarsi o se lo scoprono per nascondersi da tutti.
Io mi produco nel il mio migliore inchino per ringraziare quando Ana María appare sulla porta con Heriberto singhiozzante e mi chiede perché non voglio dare il dolcetto a Heriberto. “Non gli voglio dare il dolcetto?”, dico e guardo stupito Heriberto che ha mascherato le tracce del dolce con quelle lacrime e quel moccio che hanno portato Ana María dalla sua parte. “Sì – afferma implacabile Ana María -, Heriberto dice che ti ha dato un disegno in cambio di un dolce, ma tu non hai tenuto fede al patto”. Io, che mi sento vittima di un’ingiusta accusa, faccio la faccia da ex presidente del PRI che si prepara a prendere possesso di un importante ministero statale e a salire in tribuna per pronunciare il suo miglior discorso quando, improvvisamente, Ana María prende da chissà dove un sacchetto di dolcetti e lo dà tutto! a Heriberto. “Tieni” dice, “gli zapatisti rispettano sempre la parola data”. Poi i due se ne vanno. Io sono mooolto triste perché quei dolci erano per il compleanno di Eva, che non so più quanti anni compie, perché quando ho chiesto a sua madre quanti anni aveva mi ha risposto “sei”. “Ma se l’altro giorno mi ha detto che era entrata nei quattro”, ho ribattuto. “Sì, ne compie quattro ed entra nei cinque, cioè va per i sei”, mi risponde tranquilla la signora e mi lascia lì a far di conto con le dita, dubbioso su tutto il sistema educativo di una volta che insegnava chiaramente che 1+1 fa 2, 6×8, 48 e altre cose altrettanto importanti ma che, evidentemente, nelle montagne del Sudest non lo sono e che qui funziona un’altra logica matematica. “Noi zapatisti siamo tutta un’altra cosa”, mi ha detto il Monarca una volta, raccontandomi che quando finiva il liquido dei freni lo sostituiva con l’urina. L’altro giorno, per esempio, c’è stata una festa di compleanno. Si è riunito il “gruppo giovanile” ed ha organizzato un ‘olimpiade zapatista; la “maestra di cerimonie” ha annunciato che sarebbero seguite le gare di salto in lungo – che significa “chi salta più in alto” – e di salto in alto – ossia “chi arriva più lontano” -. Stavo contando nuovamente con le dita quando arriva il tenente Ricardo che mi dice che al mattino erano stati a cantare le canzoncine al festeggiato. “E dove è stata la serenata?”, ho chiesto felice che tutto fosse tornato alla normalità (…). “Al cimitero”, mi risponde Ricardo. “Al cimitero?”, ripeto tornando ai miei conti sulle dita. “Sì, era il compleanno di un compagno morto nei combattimenti di gennaio”, dice Ricardo mentre se ne va perché hanno annunciato la “corsa ad ostacoli”
“Bene”, mi dico, “una festa di compleanno per un morto. Perfettamente logico … nelle montagne del Sudest messicano”. E sospiro.
Sospiro di nostalgia ricordando i vecchi tempi quando i cattivi erano cattivi e i buoni erano buoni, quando la mela di Newton seguiva la sua irresistibile caduta verso una qualche mano infantile, quando il mondo odorava di aula scolastica il primo giorno di scuola: paura, mistero, novità. Sono lì, sospirando con sincera enfasi, quando entra El Beto, di corsa, e mi chiede se ci sono dei palloncini e, senza aspettare una risposta, inizia a rovistare tra mappe, ordini operativi, rapporti di battaglia, cenere di tabacco da pipa, lacrime asciugate, fiorellini rossi disegnati col pennarello, cartucciere e un passamontagna puzzolente. Da qualche parte El Beto trova un sacchetto di palloncini e la foto di una playmate abbastanza vecchia (la foto, non la playmate). El Beto è incerto tra il sacchetto e la foto; poi decide, come decidono generalmente i bambini in questi casi, per entrambi. Io l’ho sempre detto che questo non è un comando ma un asilo infantile. Ieri ho detto al Moy di mettere qui attorno qualche mina antiuomo. “Credi che i soldati arrivino fin qui?” mi ha chiesto preoccupato. Io rispondo con un brivido che mi percorre da cima a fondo. “I soldati non lo so, ma i bambini …”. Il Moy fa sì con la testa, comprensivo, e inizia a spiegarmi un progetto abbastanza complicato di una trappola acchiappa-bobos [bobo= uccello tipico delle regioni calde americane; anche sinonimo di stupido – N.d.T.], che consiste in buco nel terreno camuffato e con dei pali appuntiti e avvelenati sul fondo. L’idea mi piace, ma se questi bambini hanno un pregio, è quello di non essere stupidi, quindi è forse meglio mettere l’alta tensione e varie mitragliatrici “a tre canne” all’ entrata. Il Moy non è convinto; dice che ha un’idea migliore e se ne va lasciandomi nel dubbio …
Dov’ero rimasto? Ah, sì! Ai dolcetti che erano per Eva e invece se li è presi Heriberto. Sto parlando via radio a tutti gli accampamenti per cercare un sacchetto di dolci e farmelo mandare per sostituire il regalo per Eva, quando appare la suddetta con dei tamales che “li manda la mia mamma perché oggi è il mio compleanno”, dice Eva guardandomi con degli occhi che tra dieci anni scateneranno più di una guerra.
Io ringrazio con grandi inchini e le dico – cos’altro avrei potuto fare? – che ho un regalo per lei. “Dov’è?”, dice-chiede-esige Eva e io inizio a sudare perché non c’è niente di peggio di due occhi scuri arrabbiati, e lo sguardo di Eva si sta trasformando, di fronte alla mia incertezza, come in quel film Il Santo contro l’Uomo Lupo e, come se non bastasse, in quel momento arriva Heriberto a vedere se “il Sup non e più arrabbiato” con lui. Io sorrido per prendere tempo e calcolare se riesco a dare un calcio a Heriberto, quando Eva si accorge che Heriberto ha un sacchetto di dolcetti mezzo vuoto e gli chiede chi glieli ha dati de Heriberto, con la bocca impastata le dice “il Ciup”, io non capisco che Heriberto voleva dire “il Sup” finché Eva non si volta e mi ricorda “E il mio regalo?”. Heriberto, alla parola “regalo”, spalanca gli occhi e getta il sacchetto di dolci, che ovviamente è ormai vuoto, si mette accanto a Eva e le dice con nauseante cinismo: “Sì, e il nostro regalo?”. “Nostro?”, dico mentre torno a calcolare la portata del calcio, ma in quel mentre vedo che Ana María è nei dintorni e ci rinuncio. Allora dico: “L’ho nascosto”. “Dove?”, chiede Eva che vuole risparmiarsi ogni mistero. Heriberto, invece, accetta la sfida e sta già aprendo il mio zaino e sollevando la coperta, la bussola, l’altimetro, il tabacco, una scatola di proiettili, un calzino, e in quel momento lo fermo con un convincente grido: “Lì non c’è!”; Heriberto allora si getta sullo zaino del Moy e lo sta aprendo quando aggiungo: “Dovete indovinare un racconto per sapere dove sta il regalo”. Heriberto, che si era già scoraggiato da solo perché le cinghie dello zaino del maggiore sono ben strette, viene a sedersi accanto a me, lo stesso fa Eva. Beto e Toñita si avvicinano, io accendo la pipa per cercare di capire in che diavolo di guaio mi sono cacciato con questa storia dell’indovinello, quando si avvicina il vecchio Antonio che, indicando un piccolo Zapata in argento inviatoci, ripete ora, per bocca mia,
La storia delle domande
Il freddo di queste montagne è opprimente. Ana María e Mario mi accompagnano in questa esplorazione, dieci anni prima di quell’alba di gennaio. I due si sono appena arruolati nella guerriglia e io, allora tenente di fanteria, devo insegnare loro ciò che altri mi hanno insegnato, cioè vivere sulle montagne. Ieri mi sono imbattuto per la prima volta nel vecchio Antonio. Entrambi abbiamo mentito. Lui dicendo che andava a vedere il suo campo di granturco, io dicendo che andavo a caccia. Entrambi sapevamo che l’altro mentiva e sapevamo di saperlo. Lascio che Ana María prosegua nell’esplorazione e torno indietro verso il fiume per vedere se posso ubicare col clisimetro sulla cartina un monte molto alto davanti a me, e se mi imbatto di nuovo nel vecchio Antonio. Lui deve avere pensato la stessa cosa perché ricompare nello stesso punto dell’incontro precedente.
Come ieri, il vecchio Antonio si siede in terra, si appoggia da un huapac di muschio verde e inizia a rollare una sigaretta. Io mi siedo di fronte e accendo la pipa. Il vecchio Antonio inizia:
“Non sei a caccia”.
Io rispondo: “E voi non siete al vostro mais”. Qualcosa mi spinge a dare del voi, per rispetto, a quell’uomo di età incerta e dal volto simile alla corteccia del cedro, che vedo per la seconda volta in vita mia.
Il vecchio Antonio sorride e aggiunge: “Ho sentito delle voci su di voi. Nelle valli dicono che siete dei banditi, nel mio villaggio non sono tranquilli perché hanno paura che vi aggiriate da queste parti”.
“E voi credete che siamo dei banditi?”, chiedo. Il vecchio Antonio butta fuori una grande boccata di fumo, tossisce e fa cenno di no con la testa. Io prendo coraggio e faccio un’altra domanda: “E voi, chi credete che siamo?”.
“Perché non me lo dici tu?”, risponde fissandomi negli occhi.
“È una lunga storia” dico e inizio a raccontare dal tempo di Villa e Zapata e la rivoluzione e la terra e l’ingiustizia e la fame e l’ignoranza e la malattia e la repressione e tutto il resto. E termino con un “e così noi siamo l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale”. Cerco un segnale sul volto del vecchio Antonio che non ha smesso un attimo di guardarmi.
“Raccontami qualcosa d’altro di questo Zapata”, dice dopo un po’ di fumo e tosse.
Io inizio con Anenecuilco, proseguo col il Plan de Ayala, la campagna militare, l’organizzazione dei villaggi, il tradimento in Chinameca. Il vecchio Antonio continua a guardarmi mentre finisco di raccontare.
“Non andò così”, mi dice. Sorpreso, riesco solo a balbettare un “No?”. “No”, insiste il vecchio Antonio. “Ti racconto io la storia di questo Zapata”.
Il vecchio Antonio tira fuori il tabacco e la macchinetta per rollare ed inizia la sua storia che unisce e confonde tempi vecchi e nuovi, così come il fumo della mia pipa a quello della sua sigaretta si confondono.
“Tante storie fa, quando i primi dei, ma proprio i primi, quelli che crearono il mondo, stavano ancora aggirandosi nella notte, parlano due dei che erano Ik’al e il Votٕán. Erano due ma uno solo. Se uno si voltava, mostrava l’altro, e viceversa. Erano contrari. L’uno era luce, come un mattino di maggio al fiume. L’altro era buio, come una notte fredda nella tana. Erano la stessa cosa. I due erano uno, perché l’uno faceva l’altro. Ma non camminavano, stavano sempre fermi questi due dei, che erano uno immobile. “Allora, che facciamo?”, chiesero entrambi. “È così triste la vita così come stiamo”, ‘tristeggiavano’ i due che erano uno, nella loro immobilità. “La notte non passa mai”, disse Ik’al. “Non passa il giorno”, disse il Votán. “Camminiamo”, disse l’uno che era due. “Come?”, chiese l’altro. “Verso dove?” chiese l’uno. E videro che così si erano mossi un poco, prima per chiedere come, e poi per chiedere dove. Felice fu uno che erano due quando vide che si muovevano un poco. I due vollero muoversi contemporaneamente ma non ci riuscirono. “Ma come facciamo?”. E prima l’uno e poi l’altro si sporsero e si mossero un altro poco e si accorsero che prima l’uno e poi l’altro potevano farlo e si misero d’accordo per muoversi prima l’uno e poi l’altro, e iniziarono a muoversi e nessuno ricorda chi si mosse per primo per iniziare a muoversi perché erano così contenti di muoversi che “Cosa importa chi è stato il primo, se ora ci muoviamo”, dicevano i due dei che erano uno, e ridevano, e la prima cosa su cui si misero d’accordo fu di ballare e ballarono, un passetto l’uno e un passetto l’altro, e fu un ballo lungo perché erano contenti di essersi accordati. Stanchi quindi di tutto quel ballare, capirono che cosa avrebbero potuto fare e che la prima domanda “come muoversi?” aveva portato con se la risposta “insieme ma separati di comune accordo”, e quella domanda non li interessò molto perché quando se ne accorsero si stavano già muovendo e allora giunse l’altra domanda quando videro che c’erano due sentieri: uno breve che portava poco lontano, e si vedeva chiaramente che quel sentiero finiva lì vicino; e tanto era il piacere di camminare che avevano ai piedi, che dissero subito che quel sentiero era troppo corto e non lo volevano fare, e si misero d’accordo di prendere quello lungo e si stavano incamminando quando la questione della scelta del cammino fece loro chiedere “dove porta questo sentiero?”; ci pensarono un po’ i due che erano uno e d’improvviso venne loro in mente che solo percorrendo il sentiero lungo avrebbero saputo dove portava, perché così dove stavano non avrebbero mai saputo dove portava il cammino lungo. E allora si dissero l’uno che due erano: “Forza, mettiamoci in marcia, muoviamoci” e iniziarono a camminare, prima l’uno e poi l’altro. E così si accorsero che a percorrere il sentiero lungo ci voleva tanto tempo e allora arrivò l’altra domanda “Come facciamo a camminare per tanto tempo?”, ci pensaronoun bel po’ e poi Ik’al disse chiaramente che lui non sapeva camminare di giorno e Votán disse che la notte aveva paura di camminare e si misero a piangere, poi una volta finita la frignata si misero d’accordo che Ik’al avrebbe potuto camminare di notte e Votán di giorno e Ik’al avrebbe portato Votán di notte e così giunsero alla conclusione che avrebbero potuto camminare tutto il tempo. Da allora i due dei marciano con le domande e non si fermano mai, mai arrivano e mai vanno. E così gli uomini e le donne veritieri impararono che le domande servono per camminare, non per restarsene fermi. E da allora uomini e donne veritieri per camminare domandano, per arrivare si congedano e per andarsene si salutano. Non stanno mai fermi”.
Io continuo a mordicchiare l’ormai striminzito bocchino della pipa in attesa che il Vecchio Antonio continui, ma pare che lui non abbia intenzione di farlo. Col timore di rompere qualcosa di importante chiedo: “E Zapata?”.
Il vecchio Antonio sorride: “Intanto hai imparato che per sapere e avanzare bisogna domandare”. Tossisce e accende un’altra sigaretta che non ho capito quando ha preparato e, tra il fumo che esce dalle sue labbra cadono parole come semi nel terreno.
“Questo Zapata apparve qua sui monti. Non nacque, dicono. Semplicemente apparve. Dicono che sia Ik’al e Votán, arrivati qui nel loro lungo cammino e che, per non spaventare la brava gente, divennero uno solo. Perché dopo tanto andare assieme, Ik’al e Votán avevano imparato che era lo stesso e che potevano diventare uno solo di giorno e di notte e quando sono arrivati qui sono diventati uno solo e si sono messi il nome di Zapata e Zapata disse che era arrivato fino a qui e qui avrebbe trovato la risposta di dove porta il lungo cammino e disse che a volte sarebbe·stato luce e a volte buio, ma che era la stessa persona: il Votán Zapata e Ik’al Zapata, lo Zapata bianco e quello nero, e che i due rappresentavano lo stesso sentiero per gli uomini e le donne veritieri.
Il vecchio Antonio tira fuori dalla suo piccola sacca una bustina di nylon. Dentro c’è una vecchia foto del 1910 di Emiliano Zapata. Zapata impugna con la sinistra la sciabola all’altezza delle vita. Nella destra tiene una carabina, al petto: due cartucciere incrociate e una fascia a due colori bianca e nera da sinistra a destra. Ha i piedi come chi sta fermo o sta camminando e lo sguardo come dicesse “sono qui”, oppure “arrivo”. Ci sono due scale. In una, quella che esce dall’oscurità, si vedono altri zapatisti dai volti bruni; l’altra, illuminata, è vuota e non si vede da dove viene ne dove va. Direi una bugia se affermassi di essermi accorto di tutti quei dettagli. Fu il vecchio Antonio a farmeli notari. Dietro alla foto si legge:
Gral. Emiliano Zapata, Jefe del Ejercito Suriano.
Gen. Emiliano Zapata, Commander in Chief of the Southern Army.
Le General Emiliano Zapata. Chef de l’ Armee du Sud.
C.1910. Photo by: Agustin V. Casasola.
Il vecchio Antonio mi dice: “Io ho fatto tante domande a questa foto. È così che sono arrivato fino a qui”. Tossisce e getta il mozzicone di sigaretta. Mi dà la foto. “Prendi”, mi dice. “Perché tu impari a chiederle … e a cammmare”.
“È meglio congedarsi quando si arriva. Così non dispiace tanto quando uno se ne va”, dice il vecchio Antonio tendendomi la mano per dirmi che se ne va, cioè che sta arrivando. Da allora, il vecchio Antonio saluta con un “addio” quando arriva e si congeda alzando la mano e allontanandosi con un “sto arrivando”. Il vecchio Antonio si alza. Lo stesso fanno Beto, Toñita, Eva ed Heriberto. Io tiro fuori la foto di Zapata dal mio zaino e gliela mostro.
“Sta per salire o per scendere?”, chiede Beto.
“Sta per mettersi in cammino o restare lì in piedi?”, chiede Eva.
“Sta tirando fuori la spada o rimettendola a posto?”, chiede Toñita.
“Ha appena sparato o sta per farlo?”, chiede Heriberto.
Io non smetto di meravigliarmi per tutte queste domande che suscita questa foto di 84 anni fa e che nel 1984 mi aveva regalato il vecchio Antonio. La guardo un’ultima volta prima di decidermi a regalarla ad Ana María e la foto mi strappa un’ulteriore domanda. E il nostro ieri o il nostro domani?
E visto che si parlava di domande, e con una coerenza sorprendente per i suoi quattro-anni-compiuti-entrata-
Mentre i bambini si mettono d’accordo, cioè litigano, per dividersi i dolci, Ana María saluta militarmente e mi dice:
“A rapporto: la truppa è pronta a uscire”.
“Bene”, dico mettendomi la pistola alla cintura. “Partiremo all’alba, come stabilito”, Ana María esce.
“Aspetta”, le dico. E le do la foto di Zapata.
“E questa?”, chiede guardandola.
“Ci servirà”, rispondo.
“A cosa?”, insiste.
“Per sapere dove andiamo”, rispondo ispezionando la mia carabina. In cielo un aereo da guerra compie evoluzioni …
Bene, non disperate, ho quasi terminato questa “lettera delle lettere”.
Prima devo cacciare fuori i bambini …
Per ultimo, risponderò ad alcune domande che, certamente, vi starete ponendo. Sappiamo dove andiamo? Sì.
Sappiamo ciò che ci aspetta? Sì.
Vale la pena? Sì.
Chi può rispondere “sì” alle tre domande precedenti, può restare senza fare niente e non sentire che qualcosa dentro si sta rompendo?
È tutto. Saluti e un fiore per questa tenera furia, credo che se lo meriti.
Dalle montagne del Sudest messicano
Subcomandante Insurgente Marcos
P.S. per scrittori, commentatori e popolo in generale. Brillanti penne hanno trovato aspetti interessanti nel movimento zapatista, ma invece ci hanno negato la nostra fondamentale essenza: la lotta nazionale. Per loro continuiamo ad essere gente di borgata, coscienti dei nostri bisogni istintivi ma incapaci, almeno senza un aiuto “esterno”, di intendere e di fare nostri concetti come quelli di “nazione”, “patria”, “messico”. Sì, tutti con la minuscola, si intonano in questi tempi grigi. Per loro va bene che abbiamo lottato per le necessita materiali, ma lottare per quelle spirituali è eccessivo. È comprensibile che ora queste penne si volgano contro la nostra ostinazione. Ci dispiace, qualcuno deve essere coerente, qualcuno deve dire “No”, qualcuno deve ripetere “Basta!”, qualcuno deve mettere da parte la prudenza, qualcuno deve dare più importanza alla dignità che alla vita, qualcuno deve … Bene, volevo solo dire a queste brillanti penne che capiremo la condanna che ora sortirà dalle loro mani. A nostra difesa posso solo dire che quanto abbiamo fatto non lo abbiamo fatto per fare piacere a loro, che quanto abbiamo detto e fatto è stato solo per noi stessi, per il gusto di lottare, vivere, parlare, camminare … Brava gente di ogni classe sociale, di ogni razza, di ogni genere ci ha aiutato. Qualcuno per alleviare il rimorso di coscienza, altri perché di moda, la maggioranza per convinzione, per la certezza di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo e di buono. Perché noi siamo i buoni, per questo avvisiamo prima di quello che faremo, affinché possiate mettervi al sicuro, affinché siate preparati, che non siate colti di sorpresa. So che questo ci svantaggia, ma a parte lo svantaggio tecnologico, possiamo trascurare lo svantaggio di perdere la sorpresa.
A tutta questa brava gente io vorrei dire di continuare a fare i bravi, di continuare a credere, di non lasciare che lo scetticismo li rinchiuda nella dolce prigionia del conformismo, di continuare a cercare, di continuare a trovare qualcosa in cui credere, qualcosa per cui lottare.
Abbiamo avuto anche brillanti nemici. Penne che non si sono accontentate dell’aggettivo dispregiativo o di facili parole, penne che hanno cercato argomenti forti, saldi, coerenti, per attaccarci, denigrarci, isolarci. Ho letto brillanti testi che denigravano gli zapatisti e difendevano un regime che deve pagare, e molto, per fingere che qualcuno lo ami. Peccato che, alla fine, hanno finito per difendere una causa puerile e vana, peccato che finiranno per affondare insieme a questo edificio che si sta sgretolando…
P.S. che, a cavallo e con un mariachi, canta sotto la finestra di una nonnina la canzone di Pedro Infante intitolata “Dicono che sono un donnaiolo” e che finisce così. ..
Tra i miei dolci amori
uno vale molto di più
che mi ama senza rancori
taratutun.
Una nonnina graziosa
che non credo di meritare
col suo cuore mi offre
il più divino amore.
Pubblicato su La Jornada il 13 dicembre 1994
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