Ago222018
300. Prima parte: UNA FINCA, UN MONDO, UNA GUERRA, POCHE PROBABILITÀ. Subcomandante Insurgente Moisés, SupGaleano
Intervento della Commissione Sexta dell’EZLN all’Incontro delle Reti di Appoggio al CIG ed alla sua Portavoce.
(Versione ampliata)
Per ragioni di tempo l’intervento zapatista non era stato completo. Avevamo promesso che avremmo inviato le parti mancanti: qui di seguito la versione originale che include parti della trascrizione più quanto non detto. Di nulla. Prego.
300.
Prima parte:
UNA FINCA, UN MONDO, UNA GUERRA, POCHE PROBABILITÀ.
Agosto 2018.
Subcomandante Insurgente Galeano:
Buongiorno, grazie di essere venuti ed aver accettato il nostro invito e di condividere la vostra parola.
Iniziamo spiegando quale è il nostro modo di fare analisi e valutazioni.
Noi incominciamo con l’analizzare che cosa succede nel mondo, poi scendiamo a vedere che cosa succede nel continente, poi che cosa succede nel paese, poi nella regione e poi localmente. E da qui tiriamo fuori un’iniziativa e cominciamo a farla uscire dal contesto locale a quello regionale, poi nazionale, poi continentale e poi nel mondo intero.
Secondo il nostro pensiero, il sistema dominante a livello mondiale è il capitalismo. Per spiegarcelo e per spiegarlo agli altri, usiamo l’immagine di una finca, una tenuta.
Chiedo al Subcomandante Insurgente Moisés di parlarcene.
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Subcomandante Insurgente Moisés:
Dunque compagni, compagne, abbiamo intervistato compagni e compagne bisnonni e bisnonne che nella loro vita hanno vissuto nelle fincas – alcuni di loro sono ancora vivi e vive – Quello che ci hanno raccontato ci ha fatto pensare – diciamo ora – che i ricchi, i capitalisti, vogliono trasformare il mondo in una loro proprietà, una loro finca.
C’è il fattore, il proprietario terriero, il padrone di migliaia di ettari di terra che può anche non esserci perché il padrone ha il suo caposquadra che si prende cura della finca, ed il caposquadra cerca il suo maggiordomo che è quello che va a controllare che si lavori la sua terra; e questo caposquadra, su ordine del padrone, deve cercare un caporale che si occupa di controllare tutto intorno alla tenuta, alla sua casa. Ci hanno raccontato delle diverse cose che si fanno in una finca: c’è la finca dove si alleva il bestiame, c’è la finca dove si coltiva il caffè, c’è la finca della canna da zucchero, dove si fa il panetto di zucchero, e di milpa e di fagioli. Allora combinano il tutto; cioè in una proprietà di 10 mila ettari si fa tutto, c’è l’allevamento, la lavorazione della canna, la coltivazione di fagioli, la milpa. Allora per tutta la sua vita la gente circola lì, lavora lì – come servi, la gente che soffre lì -.
Il caposquadra arrotonda poi la sua paga rubando al padrone quello che produce la finca. Cioè, oltre a quello che gli dà il padrone, il finquero, il caposquadra ha il suo guadagno nel rubare. Per esempio, se nascono 10 vitelle e 4 torelli, il caposquadra non lo riferisce esattamente, ma dice al padrone che sono nate solo 5 vitelle e 2 torelli. Se il padrone poi si accorge dell’inganno caccia via il caposquadra e ne mette un altro. Ma il caposquadra ruba sempre qualcosa, e questa si chiama corruzione.
Ci raccontano che quando il padrone non c’è ed anche il caposquadra vuole uscire dalla finca, allora cerca qualcuno di lì, qualcuno stronzo come lui al quale lasciare l’incarico, andarsene e poi tornare a riprendere il suo ruolo di caposquadra.
Dunque, vediamo che il padrone non c’è, è da un’altra parte, ed il caposquadra è il Peña Nieto della situazione. Quindi noi diciamo che il maggiordomo sono i governatori, ed i caporali i presidenti municipali. Tutto è strutturato secondo una scala di potere.
Vediamo anche che caposquadra, maggiordomo e caporale sono quelli che pretendono dalla gente. E lì nella finca, ci raccontano i bisnonni, c’è un negozio che chiamano negozio a credito, vuol dire che nel negozio ci si indebita; quindi gli sfruttati e le sfruttate che vivono lì, servi o serve, comprano nel negozio il sale, il sapone, quello di cui necessitano, cioè, non hanno denaro; lì il padrone ha il suo negozio e lì si indebitano per comprare sale, sapone, machete, la zappa, e non pagano con denaro bensì con la loro forza lavoro.
I bisnonni ci raccontano, donne e uomini, che il padrone dava loro poco da mangiare, giusto il necessario per arrivare al giorno dopo e lavorare per lui, e così per tutta la loro vita.
E confermiamo quello che raccontano i nostri bisnonni perché quando siamo usciti nel ’94, quando abbiamo occupato le fincas per cacciare quegli sfruttatori, abbiamo incontrato capisquadra e acasillados che, abituati ai loro negozi a credito, ci dicevano che non sapevano cosa fare e dove andare a procurarsi il sale, il sapone, perché non c’era più il loro padrone. Ci domandavano chi sarebbe stato il nuovo padrone, perché non sapevano davvero cosa fare.
Allora noi dicemmo loro: adesso siete liberi, lavorate la terra, è vostra, come quando c’era il padrone a sfruttarvi ma ora lo fate per voi, per la vostra famiglia. Ma loro non capivano, dicevano no, che la terra era del padrone.
E lì abbiamo capito che c’è gente ormai assuefatta alla schiavitù. E se hanno la libertà, non sanno che farne perché sanno solo ubbidire.
E questo succedeva 100 anni fa, più di 100 anni, come ci hanno raccontato i nostri bisnonni – uno di loro ha più o meno 125, 126 anni adesso, e l’abbiamo intervistato più di un anno fa -.
E vediamo che ancora continua così. Oggi pensiamo che il capitalismo è così. Vuole trasformare il mondo in una finca. Cioè, gli impresari transnazionali: «Vado nella mia finca La Mexicana», secondo come gli pare; «vado nella mia finca La Guatemalteca, L’Onduregna», e così via.
Ed il capitalismo cominciava ad organizzarsi secondo i suoi interessi, come ci raccontano i nostri bisnonni in una finca ci può essere di tutto, caffè, bestiame, mais, fagioli, mentre in un’altra solo canna da zucchero o altro. Ogni finquero si organizzava.
Non ci sono padroni buoni, sono tutti cattivi.
Benché i nostri bisnonni ci raccontano che ce n’era qualcuno buono – dicono – ma analizzando bene, erano buoni perché semplicemente non c’era tanto maltrattamento fisico, per questo i nostri bisnonni dicono che ce n’era qualcuno buono, ma non si salvavano dallo sfruttamento. In altre fincas c’erano invece molti maltrattamenti.
Dunque pensiamo che tutto quello che hanno passato loro succederà a noi, ma ora non più solo nelle campagne, ma nelle città. Perché non è lo stesso capitalismo di 100, 200 anni fa, i suoi modi di sfruttamento sono diversi e non sfrutta più solo nelle campagne, ma anche nelle città. Il suo sfruttamento cambia modalità, ma è ugualmente sfruttamento. È la stessa gabbia di reclusione, ma ogni tanto la ridipingono, come nuova, ma è la stessa.
Ma c’è comunque gente che non vuole la libertà, ma si è già abituata ad ubbidire e vuole solo un cambio di padrone, di caposquadra, che non sia così stronzo, che la sfrutti ma che la tratti bene.
Ma noi non lo perdiamo di vista, è solo iniziato, già.
Quello che ci cattura l’attenzione è se ci sono altri, altre, che vedono, pensano: faranno così con noi?
E che cosa faranno queste sorelle e fratelli? Si accontenteranno di un cambio di caposquadra o di padrone, o vogliono la libertà?
Questo è quello che mi tocca spiegarvi ed è quello che pensiamo e vediamo con i compagni, e le compagne, come Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
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Subcomandante Insurgente Galeano:
Quella che noi vediamo a livello mondiale è un’economia predatrice. Il sistema capitalista sta avanzando in modo da conquistare territori distruggendo più che può. Contemporaneamente c’è un’esaltazione del consumo. Sembra che il capitalismo non sembri più preoccupato per chi produce le cose, per questo ci sono le macchine, ma non ci sono macchine che consumano merci.
In realtà, questa esaltazione del consumo nasconde uno sfruttamento brutale e la depredazione sanguinaria dell’umanità che non appaiono nell’immediatezza della produzione moderna di merci.
La macchina che, automatizzata all’estremo e senza la partecipazione umana, fabbrica computer o cellulari non si regge sull’avanzamento scientifico e tecnologico, ma sul saccheggio delle risorse naturali (la necessaria distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento di territori) e sulla disumana schiavitù di migliaia di infime, piccole e medie cellule di sfruttamento della forza lavoro umana.
Il mercato (questo gigantesco magazzino di merci) contribuisce al miraggio del consumo: le merci appaiono al consumatore come «aliene» al lavoro umano (cioè, al suo sfruttamento) ed una delle conseguenze «pratiche» è dare al consumatore (sempre individualizzato) l’opzione di «ribellarsi» scegliendo un mercato o un altro, un consumo o un altro, o rifiutando un consumo specifico. Non si vuole consumare cibo spazzatura? Non c’è problema, sono in vendita anche prodotti alimentari biologici ed ad un prezzo più elevato. Non consuma note bibite di cola perché sono dannose per la salute? Nessun problema, l’acqua imbottigliata è commercializzata dalla stessa azienda. Non vuole consumare nelle grandi catene di supermercati? Non c’è problema, la stessa azienda fornisce la boutique dietro l’angolo. E così via.
Dunque sta organizzando la società mondiale dando, apparentemente, priorità al consumo, tra altre cose. Il sistema funziona con questa contraddizione (tra le altre): vuole disfarsi della forza lavoro perché il suo «uso» presenta diversi problemi (per esempio: tende ad organizzarsi, protestare, fare presidi, scioperi, sabotaggi della produzione, allearsi con altr@); ma contemporaneamente ha bisogno del consumo di merci da parte di questa merce «speciale».
Per quanto il sistema miri ad «automatizzarsi», lo sfruttamento della forza lavoro gli è fondamentale. Non importa quanto consumo mandi alla periferia del processo produttivo, o quanto estenda la catena di produzione in modo che sembri («simulare») che il fattore umano sia assente: senza la merce essenziale (la forza lavoro) il capitalismo è impossibile. Un mondo capitalista senza lo sfruttamento, dove prevale solo il consumo, è buono per la fantascienza, le elucubrazioni sui social network ed i languidi sogni degli ammiratori dei suicidi della sinistra aristocratica.
Non è l’esistenza del lavoro che definisce il capitalismo, bensì la caratterizzazione della capacità di lavoro come una merce che si vende e si compra sul mercato del lavoro. Questo vuol dire che c’è chi vende e c’è chi compra; e, soprattutto, che c’è chi ha solo l’opzione di vendersi.
La possibilità di comprare la forza lavoro è data dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, di circolazione e consumo. Nella proprietà privata di questi mezzi sta il nucleo vitale del sistema. Su questa divisione di classe (proprietaria e diseredata) e per occultarla, si costruiscono tutte le simulazioni giuridiche e mediatiche, così come le evidenze dominanti: la cittadinanza e l’uguaglianza giuridica; il sistema penale e di polizia, la democrazia elettorale e l’intrattenimento (sempre di più difficili da distinguere); le nuove religioni e le presunte neutralità delle tecnologie, le scienze sociali e le arti; il libero accesso al mercato e al consumo; e le sciocchezze (più o meno elaborate) del «cambiamento sta in se stessi», «ognuno è artefice del proprio destino», «far buon viso a cattivo gioco», «non dare un pesce all’affamato, ma insegnagli a pescare» («e vendigli la canna da pesca») e, ora di moda, i tentativi di «umanizzare» il capitalismo, renderlo buono, razionale, disinteressato, light.
Ma la macchina esige profitti ed è insaziabile. Non c’è limite alla sua ingordigia. E la smania di profitto non ha etica né razionalità. Se deve uccidere, uccide. Se deve distruggere, distrugge. Anche se fosse il mondo intero.
Il sistema avanza nella sua riconquista del mondo. Non importa quello che si distrugga, rimanga o avanzi: è eliminabile finché si ottiene il massimo profitto ed il più rapidamente possibile. La macchina sta tornando ai metodi che gli diedero origine – per questo vi raccomandiamo di leggere l’Accumulazione Originaria del Capitale – che è mediante la violenza e attraverso la guerra che si conquistano nuovi territori.
Ma il capitalismo, con il neoliberismo, ha lasciato in sospeso una parte della conquista del mondo ed ora deve completarlo. Nel suo sviluppo, il sistema «scopre» che sono apparse nuove merci e queste nuove merci si trovano nel territorio dei popoli originari: l’acqua, la terra, l’aria, la biodiversità; tutto ciò che ancora non è addomesticato si trova nei territori dei popoli originari e ci si buttano sopra. Quando il sistema cerca (e conquista) nuovi mercati, non sono solo mercati di consumo, di compra-vendita di merci; anche, e soprattutto, cerca e tenta di conquistare territori e popolazioni per tirarne fuori tutto il possibile, non importa che, alla fine, lasci dietro di se una landa desolata come eredità e traccia del suo passaggio.
Quando una società mineraria invade un territorio degli originari con la scusa di offrire «posti di lavoro» alla «popolazione autoctona» (mi sembra che ci chiamino così), non solo sta offrendo a questa gente i soldi per comprare un nuovo cellulare di gamma più alta, ma sta anche scartando una parte di questa popolazione e sta annichilendo (nel vero senso della parola) il territorio sul quale opera. Lo «sviluppo» ed il «progresso» che offre il sistema, in realtà nasconde che si tratta del proprio sviluppo e progresso e, cosa più importante, nasconde che questo sviluppo e progresso si ottengono a costo della morte e la distruzione di popolazioni e territori.
Su questo si fonda la cosiddetta «civiltà»: quello di cui hanno bisogno i popoli originari è «uscire dalla povertà», cioè hanno bisogno di soldi. Quindi si offre «lavoro», ovvero, imprese che «contrattino» (sfruttino) gli «aborigeni» (così ci chiamano).
«Civilizzare» una comunità originaria è trasformare la sua popolazione in forza lavoro salariata, cioè, con capacità di consumo. Per questo tutti i programmi dello Stato prevedono «l’incorporazione della popolazione emarginata alla civiltà». E, di conseguenza, i popoli originari non chiedono rispetto per i loro tempi e modi di vita, ma «aiuti» per «collocare i loro prodotti sul mercato» e «per avere un lavoro». In sintesi: l’ottimizzazione della povertà.
E per «popoli originari» ci riferiamo non solo ai cosiddetti «indigeni», ma a tutti i popoli che originalmente si prendevano cura dei territori che oggi sono sotto le guerre di conquista, come il popolo curdo, e che sono sottomessi con la forza nei cosiddetti Stati Nazionali.
La cosiddetta «forma Nazione» dello Stato nasce con l’ascesa del capitalismo come sistema dominante. Il capitale aveva bisogno di protezione e aiuti per la sua crescita. Lo Stato assume così la sua funzione essenziale (la repressione), quella di essere garante di questo sviluppo. Certo, allora si disse che era per normare la barbarie, «razionalizzare» le relazioni sociali e «governare» per tutti; «mediare» tra dominatori e dominati.
La «libertà» era la libertà di comprare e vendere (vendersi) sul mercato; la «uguaglianza» era per rendere coeso il dominio omogeneizzando; e la «fraternità», bene, tutt@ siamo fratelli, il padrone e il lavoratore, il finquero e i peones, la vittima e il boia.
Poi si disse che lo Stato Nazionale doveva «regolamentare» il sistema, metterlo in salvo dai propri eccessi e renderlo «più equo». Le crisi era il risultato di difetti della macchina e lo Stato (ed il governo in questione) era il meccanico efficiente sempre allerta per sistemare questi difetti. Chiaramente alla lunga è risultato che lo Stato (ed il governo in questione) era parte del problema, non la soluzione.
Ma gli elementi fondamentali di questo Stato Nazione (polizia, esercito, lingua, moneta, sistema giuridico, territorio, governo, popolazione, frontiera, mercato interno, identità culturale, ecc.) oggi sono in crisi: i poliziotti non prevengono i reati, li commettono; gli eserciti non difendono la popolazione, la reprimono; le «lingue nazionali» sono invase e modificate (cioè, conquistate) dalla lingua dominante nello scambio; le monete nazionali si valutano secondo le monete che egemonizzano il mercato mondiale; i sistemi giuridici nazionali si mettono in subordine alle leggi internazionali; i territori si espandono e contraggono (e frammentano) conformemente alla nuova guerra mondiale; i governi nazionali subordinano le decisioni fondamentali ai dettami del capitale finanziario; le frontiere variano di porosità (aperte per il traffico di capitali e merci, chiuse per le persone); le popolazioni nazionali si «mischiano» con quelle provenienti da altri Stati; e così via.
Mentre «scopre» nuovi «continenti» (cioè: nuovi mercati per estrarre merci e per il consumo), il capitalismo affronta una crisi complessa (per composizione, estensione e profondità) che esso stesso ha prodotto con la sua smania predatrice.
È una combinazione di crisi:
Una è la crisi ambientale che sta affliggendo tutte le parti del mondo e che è anche il prodotto dello sviluppo del capitalismo: l’industrializzazione, il consumo ed il saccheggio della natura hanno un impatto ambientale che altera quello che si conosce come «pianeta Terra». Il meteorite «capitalismo» è già caduto ed ha modificato radicalmente la superficie e le viscere del terzo pianeta del sistema solare.
L’altra, è l’immigrazione. Si stanno pauperizzando e distruggendo interi territori ed obbligando la gente ad emigrare in cerca di una vita. La guerra di conquista che è l’essenza stessa del sistema non occupa più territori e la loro popolazione, ma relega quella popolazione al rango di «avanzi», «rovine», «macerie», per cui quelle popolazioni o periscono o emigrano verso la «civiltà» che, non bisogna dimenticarlo, si regge sulla distruzione di «altre» civiltà. Se queste persone non producono né consumano, sono d’avanzo. Il cosiddetto «fenomeno migratorio» è prodotto e alimentato dal sistema.
Un’altra – su cui concordiamo con vari analisti in tutto il mondo – è l’esaurimento delle risorse che fanno funzionare «la macchina»: le risorse energetiche. I «picchi» finali di riserve di petrolio e carbone, per esempio, sono ormai molto vicini. Queste risorse energetiche si esauriscono e sono molto limitate, per la loro riproduzione ci vorrebbero milioni di anni. Il prevedibile ed imminente esaurimento fa sì che i territori con le riserve – benché limitate – di risorse energetiche siano strategici. Lo sviluppo di fonti di energia «alternative» procede troppo lentamente per la semplice ragione che non è redditizio, cioè, non ripaga subito l’investimento.
Questi tre elementi di questa complessa crisi mettono in dubbio l’esistenza stessa del pianeta.
La crisi terminale del capitalismo? Nemmeno per sogno. Il sistema si è dimostrato capace di superare le proprie contraddizioni e, perfino, di funzionare con queste ed in esse.
Dunque, di fronte a queste crisi che lo stesso capitalismo provoca, che provoca migrazione, provoca catastrofi naturali; che si avvicina al limite delle sue risorse energetiche fondamentali (in questo caso il petrolio e il carbone), pare che il sistema si stia ripiegando verso l’interno, come un’antiglobalizzazione, per poter difendersi da sé stesso e sta usando la destra politica come garante di questo ripiegamento.
Questa apparente contrazione del sistema è come una molla che si ritrae per poi espandersi. In realtà, il sistema si sta preparando alla guerra. Un’altra guerra. Una guerra totale: da tutte le parti, tutto il tempo e con tutti i mezzi.
Si stanno costruendo muri legali, muri culturali e muri materiali per tentare di difendersi dalla migrazione che loro stessi hanno provocato; e si sta tentando di tornare a mappare il mondo, le sue risorse e le sue catastrofi, per gestire le prime affinché il capitale mantenga il suo funzionamento, e le seconde per fare sì che non colpiscano troppo pesantemente i centri di Potere.
Secondo noi, questi muri continueranno a proliferare fino a che si costruirà una specie di arcipelago «di sopra» dove, dentro «isole» protette ci siano i padroni, diciamo, quelli che posseggono la ricchezza; e fuori da quegli arcipelaghi rimangano tutti gli altri. Un arcipelago con isole per i padroni e con isole differenziate – come le fincas – con lavori specifici. E, molto a parte, le isole perse, quelle delle/degli eliminabili. Ed in mare aperto, milioni di chiatte che deambulano da un’isola all’altra cercando un luogo per attraccare.
Fantascienza di manifattura zapatista? Googlate «Nave Aquarius» e guardate la distanza che corre tra quello che descriviamo e la realtà. Alla nave Aquarius diverse nazioni d’Europa hanno negato l’attracco in porto. La ragione? Il carico letale che trasporta: centinaia di migranti provenienti da paesi «liberati» dall’Occidente con guerre di occupazione e da paesi governati da tiranni col beneplacito dell’Occidente.
«Occidente», il simbolo della civiltà per auto definizione, va, distrugge, spopola e si ripiega e chiude, mentre il grande capitale prosegue nei suoi affari: ha prodotto e venduto le armi di distruzione, produce anche e vende le macchine per la ricostruzione.
E chi appoggia questo ripiegamento è la destra politica in varie parti. Cioè, i capisquadra «efficienti», quelli che controllano la marmaglia ed assicurano il profitto al finquero… anche se più di uno, una, unoa, ruba parte delle vitelle e torelli. Inoltre, “maltrattano” troppo la loro rispettiva popolazione acasillada.
Tutti quelli che avanzano, o consumano o bisogna annichilirli, bisogna farli da parti, sono – diciamo noi – le/gli eliminabili. In questa guerra non contano neanche come «vittime collaterali».
Non è che qualcosa sta cambiando, è già cambiato.
Ed ora usiamo i simili ai popoli originari perché per molto tempo, nella tappa precedente lo sviluppo del capitalismo, i popoli originari erano rimasti dimenticati. Prima noi abbiamo usato l’esempio dei neonati indigeni che erano i non-nati perché nascevano e morivano senza che nessuno ne tenesse il conto, e quei non-nati vivevano in queste zone, per esempio, in queste montagne che prima non interessavano a loro. Le terre buone (le «planadas«, le chiamiamo noi) furono occupate dalle fincas, le grandi tenute dei grandi proprietari, e cacciarono gli indigeni sulle montagne, e adesso risulta che quelle montagne hanno delle ricchezze, merci che vuole anche il capitale e quindi non c’è più un posto dove andare per i popoli originari.
O lottano e difendono fino alla morte questi territori, o non c’è altra strada. Perché non ci sarà una nave che li raccolga quando navighino nelle intemperie tra le acque e le terre del mondo.
È in marcia una nuova guerra di conquista dei territori degli originari e la bandiera che sventola l’esercito invasore a volte ha anche i colori della sinistra istituzionale.
Questo cambiamento nella macchina per quanto riguarda le campagne o «zone rurali» che si può vedere perfino ad un’analisi superficiale, si presenta anche nelle città o «zone urbane». Le grandi città si sono riordinate o si trovano in questo processo, dopo o durante una guerra spietata contro i suoi abitanti marginali. Ogni città ne contiene molte altre, ma una centrale: la città del capitale. I muri che circondano questa città sono formati da leggi, piani di urbanizzazione, poliziotti e gruppi di scontro.
Il mondo intero si frammenta; proliferano i muri; la macchina avanza nella sua nuova guerra di occupazione; centinaia di migliaia di persone scoprono che la nuova casa promessa loro dalla modernità è una chiatta in alto mare, il bordo di una strada, o l’affollamento di un centro di detenzione per «clandestini»; milioni di donne imparano che il mondo è un gigantesco club di caccia dove loro sono la preda da catturare; l’infanzia si alfabetizza come merce sessuale e lavorativa e la natura presenta il conto del lungo debito che, nel suo saldo in rosso, accumula il capitalismo nella sua breve storia come sistema dominante.
Certo, manca quello che dicono le donne che lottano, loas otroas del basso (per le quali ci sono solo disprezzo, persecuzione e morte), chi passa le notti nei quartieri popolari e trascorre il giorno a lavorare nella città del capitale, le/i migranti che ricordano che questo muro non è lì dalla notte dei tempi, i famigliari di desaparecid@s, assassinat@ ed incarcerat@ che non dimenticano né perdonano, le comunità rurali che scoprono di essere state ingannate, le identità che si scoprono differenti e suppliscono alla vergogna con l’orgoglio, e tutte, tutti, todoas le/gli eliminabili che comprendono che il destino non deve essere quello della schiavitù, dell’oblio o della morte mortale.
Perché un’altra crisi che passa inosservata è l’emergenza e la proliferazione di ribellioni, di nuclei umani organizzati che sfidano non solo il Potere ma anche la sua logica perversa e disumana. Diversa nella sua identità, cioè, nella sua storia, questa irruzione appare come un’anomalia del sistema. Questa crisi non conta per le leggi delle probabilità. Le sue possibilità di mantenersi ed approfondirsi sono minime, quasi impossibili. Per questo, dall’alto non la considerano.
Delle ribellioni, per la macchina, non c’è da preoccuparsi. Sono pochi, poche e pocoas, forse arrivano a 300.
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È sicuro che questa visione del mondo, la nostra, sia incompleta e che, con un alto grado di probabilità, sia erronea. Ma così è come vediamo il sistema a livello mondiale. E da questa valutazione segue quello che guardiamo e valutiamo ai livelli continentale, nazionale, regionale e locale.
(Continua…)
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