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Palabra del Ejército Zapatista de Liberación Nacional

Abr242017

LEZIONI DI GEOGRAFIA E CALENDARI GLOBALIZZATI

14 aprile 2017

Non è cambiato niente”, così dicono.

In Chiapas gli indigeni stanno uguale o peggio a prima della sollevazione zapatista”, ripetono i media prezzolati ogni volta che glielo ordina il loro caporale.

23 anni fa, da diverse parti del mondo arrivò «l’aiuto umanitario». Noi indigeni zapatisti capimmo allora che non era elemosina quello che ci mandavano, bensì appoggio per la resistenza e la ribellione. Invece di tenerci tutto o venderlo, come fanno quelli dei partiti, con quegli aiuti abbiamo costruito scuole, ospedali, progetti per l’autogestione. A poco a poco e non senza problemi, difficoltà ed errori, abbiamo costruito le basi materiali per la nostra libertà.

Ieri abbiamo ascoltato il Subcomandante Insurgente Moisés dirci che le comunità indigene zapatiste si sono organizzate non per chiedere aiuto, bensì per aiutare altra gente in altre terre, con un’altra lingua e cultura, con un altro volto, con un altro modo, affinché resista. Ci ha parlato del processo seguito per realizzare tutto questo. Chiunque abbia ascoltato le sue parole può dire, e non si sbaglierebbe, che quello in quella lunga strada che va dalla piantagione di caffè a questo chilo di caffè impacchettato, c’è una costante: l’organizzazione.

Ma torniamo al 1994-1996.

Mano a mano che arrivavano donne, uomini e otroas da diverse parti del Messico e del mondo, noi zapatiste e zapatisti capimmo che, in quel calendario, non era una particolare geografia a tenderci la mano e il cuore.

Non era la superba Europa che si dispiaceva per quei poveri indio che, inutilmente, aveva voluto sterminare secoli prima.

Era l’Europa del basso, ribelle, quella che, senza badare alla sua dimensione, lotta giorno dopo giorno. Quella che, col suo appoggio, ci diceva «non arrendetevi».

Non era il nord caotico e brutale che è governo e Potere nascosto dietro la bandiera a sbarre e torbide stelle che, simulando umanità, mandava briciole.

Era la comunità latina ed anglo che difende la sua cultura e modi, che resiste e lotta, che non si abbrutisce con la droga del «sogno americano», quella che ci ha aiutato mentre mormorava «non vendetevi».

Non era il Messico dei partiti, quello della nomenclatura di tutte le sconfitte convertite in poltrone e incarichi per i dirigenti e oblio per le basi, che cercava di incassare due volte: con il sangue dei nostri e poi con l’elemosina che avrebbe portato.

Era il Messico del basso, quello che si organizza senza contare se si è in molti o pochi, se comparirà o no nei notiziari, se sarà intervistato dai media prezzolati; quello che porta i propri morti, i propri detenuti, i propri desaparecidos non come un lamento ma come un impegno. È stato quel Messico a privarsi del poco che aveva per darlo a noi mentre i suoi occhi ci comandavano: «non tentennate».

Anche dall’Africa, Asia e dall’Oceania è arrivato l’incoraggiamento e la speranza che ci sussurrava: «resistete».

E fin da quei primi anni, noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo capito che non ci lasciavano un aiuto bensì un impegno, e da quel calendario ci siamo sforzati di onorarlo.

Sebbene con tutto contro, molestati dall’esercito e paramilitari, diffamati dai media prezzolati, dimenticati da tutti quelli che scoprivano che non avrebbero tratto vantaggio dal nostro dolore, anche così, ci siamo impegnati ad onorare quel debito, tutti i giorni ed ovunque, non senza errori e mancanze, non senza inciampi e cadute, non senza morti.

Quell’uomo, quella donna, quel otroa, che lotta in altri angoli del pianeta, ora può dire che ha lottato al nostro fianco. E senza remore può lasciare a noi gli errori e i pasticci e, giustamente, fare suoi i nostri successi che, benché piccoli, valgono.

Grazie a tutta quella gente che è stata ed è compagna forse senza saperlo, non siamo gli stessi di 23 anni fa.

Due decenni fa, ogni volta che i nostri compagni e compagne parlavano, invariabilmente terminavano chiedendo scusa per la loro poca padronanza dello spagnolo.

Oggi, senza dimenticare la loro lingua madre, ogni nostro giovane e jóvenas, con tatto corregge la pronuncia e l’ortografia a più di uno, una, unoa con diploma di laurea.

Due decenni fa l’EZLN era organizzazione, riferimento e comando delle comunità indigene. Oggi sono loro a comandare noi, che obbediamo.

Prima li guidavamo e davamo loro ordini, ora il nostro lavoro è capire come appoggiare le loro decisioni.

Prima stavamo davanti, segnando la rotta e la destinazione. Oggi stiamo dietro i nostri popoli, non poche volte correndo per raggiungerli.

Siamo passati in secondo piano. Qualcuno penserà che questo sia un fallimento.

Per noi, è il buon conto che possiamo dare ai nostri morti, alle nostre morte. Come al SupPedro, come alla compagna Malena, deceduta solo pochi giorni fa, e della quale ancora non possiamo parlarvi senza che il dolore ci intorpidisca le mani e le parole e gli occhi si inumidiscano.

Lei, per noi zapatiste e zapatisti, era grande.

Siamo arrivati a questi giorni e questa riunione con la sua morte sulle spalle e, benché non esplicitamente, la sua voce ha preso la nostra.

Un paio di giorni fa abbiamo voluto saldare un debito d’onore con chi oggi ci manca e molto. Abbiamo voluto fare nostre le parole che immaginiamo loro se fossero qui, al nostro fianco, come lo sono stati per tutta la loro vita.

Ma ora dobbiamo andare avanti e far sapere a tutti loro che le nostre comunità, i nostri popoli, hanno deciso che è il momento di ricordare a chi ha creduto e si è fidato della nostra bandiera e modo, che siamo qui, che resistiamo, che non ci arrendiamo, che non ci vendiamo, che non tentenniamo.

Vogliamo che sappiano che ora possono contare su di noi, sulle comunità zapatiste. Che benché poco e a distanza, li appoggeremo.

E neanche il nostro appoggio sarà un’elemosina. Anche per loro, per voi, sarà un impegno.

Perché speriamo che resistano fino all’ultimo. Speriamo che non si arrendano, che non si vendano, che non tentennino.

Perché speriamo che anche nei momenti in cui si sentano più soli, più sconfitti, più dimenticati, abbiano nel dolore e angoscia almeno una certezza: che c’è qualcuno che, benché lontano e col colore della terra, dice loro che non sono soli, sole, soloas. Che il loro dolore non ci è alieno. Che la loro lotta, la loro resistenza, anche la loro ribellione, è la nostra.

Li appoggeremo a modo nostro, cioè, un appoggio organizzato.

E devono sapere ed avere ben chiaro, che con questo appoggio va il nostro affetto, la nostra ammirazione, il nostro rispetto.

L’imballo non lo dice, ma dentro c’è il lavoro degli uomini, donne, bambini ed anziani zapatisti.

Perché da anni abbiamo capito che il nostro anelito non è locale, né nazionale, è internazionale.

Abbiamo capito che per il nostro impegno le frontiere sono d’intralcio. Che la nostra lotta è mondiale. Che lo è sempre stata, ma che chi ci ha partorito non lo sapeva e che è stato quando il sangue indigeno ha preso il timone oltre al motore, e segnato la rotta, che abbiamo scoperto che il dolore, la rabbia e la ribellione non hanno passaporto e che sono illegali sopra, ma sono sorelle in basso.

Oggi possiamo chiamare “compañero”, “compañera”, “compañeroa” chiunque resiste, si ribella e lotta in qualsiasi parte del pianeta.

Questa è la nuova geografia che non esisteva nell’altro calendario.

Dunque accogliete il nostro appoggio senza pena.

Ricevetelo per quello che è, un saluto.

Con questo come pretesto scuotete il mondo, graffiate i muri, dite «no», alzate il cuore e lo sguardo.

E se il potente non vi vede né vi sente, invece vi vedono e vi ascoltano le zapatiste, gli zapatisti che, benché non siamo grandi, bazzichiamo da secoli e sappiamo bene che il domani è partorito come dev’essere, cioè, in basso e a sinistra.

-*-

Di individu@ e collettiv@.

Ci sono molte cose che non siamo in grado di spiegare. Sappiamo che sono così, ma la nostra conoscenza è rudimentale e non possiamo spiegare perché.

Vedete, per esempio, «le grandi menti» ci dicono che non ne sappiamo di marxismo (non so se questo è un difetto o una virtù), che siamo una fantasia prolungata nel tempo per cause che non possono spiegare ma che sono sospette. Siccome non è possibile che un gruppo di indigeni pensi, vuol dire che è l’uomo bianco o qualche forza oscura a manipolarci e a portarci non so dove.

La nostra conoscenza, ci dicono, nel migliore dei casi non è altro che volontarismo e fortuna, o semplice manipolazione di qualche mente perversa nel peggiore.

Ma non è che li preoccupa se qualcuno ci comanda ed orienta. Quello che li disturba è che non siano loro a farlo. Li infastidisce che non obbediamo, che l’insubordinazione in queste terre non sia una bandiera ma ormai uno stile di vita.

In sintesi, li disturba e infastidisce che siamo zapatisti.

E la stessa incapacità per la lotta che suppongono abbiamo, la estendono alla conoscenza.

Continuano a guardarci dall’alto. Si affacciano dalle loro ampie e lussuose balconate a guardarci con scherno, con pena, con disapprovazione. Per tornare poi a masturbarsi nelle loro spaziose cabine pensando alla loro prosperità e benessere. Eccitandosi nell’immaginare il dolore dell’altro, la disperazione dell’altra, l’angoscia dell’otroa.

Perché loro, stanno sopra nella superba nave, navigano sulla grande finca galleggiante che percorre le geografie e i calendari attuali.

Ma se si riaffacciano e rivolgono lo sguardo in basso e a sinistra, con preoccupazione ci vedono più vicini.

No, non è che siamo cresciuti per raggiungerli. Non è che ci allunghiamo per cercare di essere come loro.

No, noi non siamo loro. E non vogliamo esserlo.

Se ci vedono più vicini, è semplicemente perché la loro superba nave affonda. Affonda irrimediabilmente, e lo sanno il finquero, i capoccia e i caporali che hanno già pronte le scialuppe per abbandonare il vascello quando la catastrofe sarà tanto evidente che nessuno potrà negarla.

Ma non fate caso a me. Sono loro i grandi studiosi, quelli che maneggiano con abilità le nuove meraviglie tecnologiche. Sono loro che possono, con un colpo di dito, trovare giustificazioni per il loro cinismo, la loro viltà, la loro imbecillità che, non perché istruita, smette di essere quello che è: incompetenza pedante e cinica. Loro che, con destrezza, evitano le argomentazioni contrarie, che truccano e pubblicano parole e fatti adattandoli a convenienza.

E non gli interessa nemmeno correggerci. Vogliono solo consolarsi nella loro bassezza, nella loro solitudine. E si credono individuali, unici, irripetibili, ma non sono altro che una mosca in più tra le milioni che volano sulla merda.

Loro che credono di sapere e non sanno. Loro che vogliono vincere, e perdono.

Perché loro credono di essere al salvo dal collasso. Che il dolore sarà sempre di altri.

Davvero credono che la disgrazia prima busserà alla loro porta e chiederà il permesso di entrare nella loro vita?

Credono che ci sarà un annuncio preventivo, che ci sarà un’applicazione sul cellulare che li avviserà dell’avvicinamento della tragedia?

Sperano che suonerà l’allarme e potranno uscire ordinati dal proprio luogo di lavoro, dalla loro casa, dalla loro auto e raggrupparsi in un determinato punto?

Sperano che nei loro miserabili mondi apparirà, all’improvviso, il segnale che indichi: «punto di incontro in caso di apocalisse»?

Nei loro villaggi, nelle loro colonie, nelle loro città, nei loro paesi, nei loro mondi, c’è una porta con un’insegna luminosa che dice «USCITA DI SICUREZZA»?

Pensano che sarà come nelle serie e film catastrofici, dove tutto è normale ed in un istante tutto svanisce?

Forse. Sono loro che sanno, che impartiscono giudizi e condanne.

Ma, secondo noi, zapatiste e zapatisti, l’incubo lo sta costruendo a poco a poco il Potente. Il più delle volte, lo presenta come un beneficio, un avanzamento. A volte è il progresso, lo sviluppo, la civiltà.

Ma noi siamo solo indigeni, cosa che, secondo loro, vuol dire ignoranti, manipolati dalla religione, o dalla necessità, o da entrambe.

Per loro non abbiamo né la capacità né il raziocinio per distinguere una cosa da un’altra.

Per loro non siamo capaci della minima elaborazione teorica.

Ma, per esempio, più di 20 anni fa denunciammo il collasso che avrebbe subito la globalizzazione neoliberale. Ora le grandi menti scoprono che, in effetti, la globalizzazione scoppia, e scrivono minuziosi saggi per dimostrare quello che si può constatare spegnendo la televisione, il computer o lasciando in pace il cellulare per alcuni istanti e, non diciamo di uscire per strada, ma basterebbe affacciarsi alla finestra per vedere quello che succede. Si citano e ricitano tra loro, si congratulano e scambiano moine e festini teorici (ok, anche carnali, ma a ognuno faccia come gli pare).

Se, in teoria, ci fosse giustizia, si potrebbe ammettere che i più piccoli dei piccoli si sono affacciati per primi alla catastrofe in corso e l’hanno segnalata.

Non hanno detto se era bene o male, non hanno abbondato e ridondato di citazioni a piè di pagina, né hanno accompagnato le loro asseverazioni con riferimenti a strani nomi pieni di titoli accademici.

Vi racconto questo perché, un paio di giorni fa, vi dicevo che tra le carte del SupMarcos avevo trovato quel testo che si suppone spiega le ragioni e i motivi che hanno portato uno scarabeo di nome proprio Nabucodonosor, a scegliere un nome di lotta ed una conseguente professione, abbandonare la sua casa e famiglia, ed armato di un guscio di noce come elmo, un tappo di plastica del flacone di un medicinale come scudo, una graffetta piegata come lancia ed un rametto come spada (che, ovviamente, si chiamava Excalibur), scegliere un amore impossibile, assegnare ad una tartaruga la missione di cavalcatura col paradossale nome di «Pegaso», scegliere come scudiero un guerrigliero dal naso prominente e lanciarsi a percorrere le strade del mondo.

Ma io non cercavo quel testo. Perché nell’ultimo periodo ho letto ed ascoltato studi ed analisi che sostengono che sembra, è probabile, può essere, è una supposizione, la globalizzazione neoliberale non sia la panacea promessa e che, in realtà, stia portando più danni che benefici.

Allora sono andato a frugare in quel baule perché ricordavo di averlo già letto.

E poi l’ho trovato e ve lo leggo. È datato aprile 1996 ed è una relazione scritta da uno scarabeo. Si intitola:

“ELEMENTI PROMETTENTI PER UN’ANALISI INIZIALE COME PRIMA BASE DI UN APPROCCIO ORIGINALE ALLE PRIMOGENITE CONSIDERAZIONI FONDAMENTALI CIRCA IL BASAMENTO SOVRASTORICO E SUPERCALIFRAGILISTICOESPIRALIDOSO DEL NEOLIBERISMO NELLA CONGIUNTURA DECISIVA DEL 6 APRILE 1994 ALLE ORE 0130 IN PUNTO, ORA SUDORIENTALE, CON LA LUNA CHE TENDE A SVUOTARSI COME LA TASCA DI UN LAVORATORE ALL’APICE DELLE PRIVATIZZAZIONI, DEGLI AGGIUSTAMENTI MONETARI ED ALTRE MISURE ECONOMICHE TANTO EFFICACI DA PROVOCARE INCONTRI COME QUELLO A LA REALIDAD”. (Prima di 17.987 parti).

La relazione era abbastanza sintetica. Di fatto, si compone di una sola frase che dice:

“Il problema con la globalizzazione nel neoliberismo è che i globos [palloncini in spagnolo – n.d.t.] scoppiano”.

Capisco che in una pubblicazione «seria» dell’accademia o del limitato universo dei media prezzolati non si può citare a piè di pagina: «Don Durito de La Lacandona. Op. Cit. 1996). Perché poi bisognerebbe chiarire, alla fine della pubblicazione, che l’autore è uno scarabeo che si crede un cavaliere errante le cui tracce si sono perse a La Realidad il 25 maggio del 2014.

Ma, vi dicevo che ci sono molte cose di cui non riusciamo a spiegare il perché, ma sono così.

Per esempio, l’individualità e il collettivo.

La forma collettiva è meglio che individuale. Non sono in grado di spiegarvi scientificamente perché, ed avete tutto il diritto di accusarmi di esoterismo, o di qualcosa di altrettanto orribile.

Quello che abbiamo visto nel nostro limitato ed arcaico orizzonte, è che il collettivo può tirare fuori e far brillare la parte migliore di ogni individualità.

Non è che il collettivo ti renda migliore e l’individualità ti renda peggiore, no. Ognuno è quel che è, un complesso intrico di virtù e difetti (per quello che significhino le une e gli altri), ma in determinate situazioni affiorano le une o gli altri.

Provateci almeno una volta. Non vi succederà niente. In ogni caso, se siete così meravigliosi come pensate di voi stessi, allora rafforzerete la vostra convinzione che il mondo non vi merita. Ma forse troverete dentro voi delle abilità e capacità che non sapevate di avere. Provate, se non vi piace potete sempre tornare al vostro account di tuiter, al vostro muro di feisbuc, e da lì continuare a dettare al mondo intero quello che si deve essere e fare.

Ma non è per questo che ora vi suggerisco di lavorare e lottare in collettivo. Il fatto è che sta arrivando la tormenta. Quello che si vede adesso non è nemmeno lontanamente il punto più alto. Il peggio deve arrivare. E le individualità, per quanto brillanti e capaci siano, non potranno sopravvivere se non con altri, altre, otroas.

Noi abbiamo visto come il lavoro collettivo non solo ha permesso la sopravvivenza dei popoli originari alle diverse tormente terminali, ma anche a progredire quando sono comunità, e sparire quando ognuno guarda al proprio benessere individuale.

Per quanto riguarda le comunità indigene zapatiste, il lavoro collettivo non l’ha portato l’EZLN, neanche il cristianesimo, né Cristo né Marx hanno avuto a che fare con questo, ma nei momenti di pericolo, di fronte a minacce esterne, per le feste, la musica e il ballo, la comunità nei territori dei popoli originari diventa un solo collettivo.

È lì da vedere.

In ogni caso, io vi suggerirei di approfittare di quello che farà il Congresso Nazionale Indigeno a partire da maggio di questo anno. Speriamo davvero che il CNI compia il suo mandato e non cada nella trappola della ricerca di voti e incarichi, ma porti l’ascolto fraterno di chi in basso è dolore e solitudine, che lo possa alleviare con l’invito all’organizzazione.

Il cammino di queste compagne e compagni renderà visibili quartieri, comunità, tribù, nazioni, popoli originari. Avvicinatevi a loro, agli indigeni. Abbandonate, se potete, la lente dell’antropologo che li vede come insetti rari ed anacronistici. Lasciate da parte la pena ed il ruolo di missionario evangelizzatore che offre loro salvazione, aiuto, conoscenza. Avvicinatevi come sorella, fratello, hermanoa.

Perché, quando arriverà il momento in cui nessuno saprà dove andare, i popoli originari, quelli che oggi sono disprezzati e umiliati, sapranno dove posare il passo e lo sguardo, sapranno il come e il quando. In sintesi, sapranno rispondere alla domanda più importante ed urgente in quei momenti: «che cosa succederà adesso?».

-*-

Ed ora, per finire, alcune brevi segnalazioni. Alcune piste.

– Quando Trump parla di recuperare le frontiere degli Stati Uniti, dice che è quella col Messico, ma lo sguardo del finquero punta al territorio Mapuche. La lotta dei popoli originari non può né deve limitarsi al Messico, deve alzare lo sguardo, l’ascolto e la parola ed includere tutto il continente, dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco.

– Quando per voce del Subcomandante Insurgente Moisés, diciamo che il mondo intero si sta trasformando in una finca ed i governi nazionali in capoccia che simulano potere e indipendenza quando il padrone è assente, non solo stiamo segnalando un paradigma con conseguenze teoriche. Stiamo segnalando anche un problema che ha conseguenze pratiche per la lotta. E non ci riferiamo alle lotte «grandi», quelle dei partiti politici e dei movimenti sociali, ma a tutte le lotte. Lo zapatismo, come pensiero libertario, non riconosce il Río Bravo e Suchiate come limiti alla sua aspirazione di libertà. Il nostro «per tutti, tutto» non riconosce frontiere. La lotta contro il Capitale è mondiale.

– Tra le varie opzioni, la nostra posizione è stata ed è chiara: non esiste un capoccia buono. Ma comprendiamo che qualcuno, la maggior parte delle volte come terapia consolatoria, faccia distinzione tra i cattivi e i peggiori. Ok, chi poco fa, di poco o niente si accontenta.

Ma questi dovrebbero cercare di capire che chi rischia tutto, vuole tutto. E per noi, zapatiste e zapatisti, il tutto è la libertà.

Non vogliamo scegliere tra un padrone crudele ed uno buono, semplicemente non vogliamo padroni.

È tutto qui.

Molte grazie. Oltre a quelle che mi adornano.

SupGaleano.

Aprile 2017

DAL QUADERNO DI APPUNTI DEL GATTO-CANE.

I.- Scene dalla Finca Globale.

I signori John McCain e John Kelly vengono convocati. Il primo è senatore ed il secondo è segretario alla Sicurezza Nazionale nel governo nordamericano. Il padrone li rimprovera per il commento sul fatto che sarebbe un problema che arrivasse una candidatura di sinistra alla presidenza del Messico, cosa che è stata sfruttata da uno dei pre-candidati per promuoversi.

Tanto McCain quanto Kelly si guardano stupiti e dicono: “ma noi ci stavamo riferendo a quello che vogliono quei fottuti indio mangiafagioli, che vanno dicendo che possono governare non solo il Messico ma il mondo intero con il loro fottuto consiglio. Loro sì che sono un problema, non so perché l’altro si sia sentito coinvolto, quando sappiamo bene che lui non rappresenta nessuna minaccia se non per sé stesso”.

Il padrone, che sia il finquero o che sia il capitalista, li ha ascoltati e mosso il capo assentendo con approvazione. Ha dato loro ordine di ritirarsi e poi ha chiamato Donaldo e sua mamma (che appare solo qui per citarla), così come i principali leader politici per dare loro indicazioni.

Ore dopo, in solenne sessione del congresso nordamericano, Trump consegna al senatore McCain ed al generale Kelly la medaglia al merito capitalista, il più alto onore che il padrone concede a capoccia, maggiordomi e caporali.

La sessione trascorreva senza contrattempi quando si è sentito del chiasso provenire dalla sala stampa dove i corrispondenti assegnati alla Casa Bianca si stavano annoiando a morte. All’improvviso, tutti si accalcano intorno ad uno dei monitor.

Sembra che una collega, più annoiata del ciuffo di Trump, facendo «zapping» in rete sia arrivata alla pagina del Sistema Zapatista di Televisione Intergalattica («SIZATI» la sigla in spagnolo).

Sullo schermo si vedeva la stessa cerimonia ma attraverso una telecamera che riprendeva tutto alle spalle di Trump.

Nell’immagine si vedeva Trump con un foglio incollato su una delle natiche su cui c’era scritto «Kick mi«, ed un altro sull’altra natica che diceva «Fuck me» ed un altro, all’altezza della spalla sinistra, su cui si leggeva «Vamos por todo para todoas» e firmato «Il fottuto Congresso Nazionale Indigeno«.

I corrispondenti impazziti chiamano frenetici le redazioni, le principali catene televisive del mondo sospendono la programmazione abituale per collegarsi col SIZATI. In tutto il pianeta gli schermi si riempiono delle natiche del signor Trump.

Le conseguenze non si fanno attendere: la famiglia molto onorevole, discreta e schiva Kardashian, viene colta da una sincope cardiaca perché il suo reality show ha perso il 100% dell’audience; il mondo intero non vede la scena culminante della serie The Walking Dead, dove Darill confessa il suo amore a Rick e quando Rick e Flechitas si baciano appassionatamente, zac!, la Michone taglia la testa ad entrambi e, rinfoderando la sua katana dice, guardando la telecamera: «meglio che vada nella fottuta selva lacandona a cercare il mio vero amore, il fottuto SupGaleano, non sia mai che mi freghi la fottuta Rousita»; e neanche si è potuto vedere l’ultimo episodio della serie Trono di Spade, in cui Dayanaris dà un bacio a Tyron, dimostrando che il fottuto piccoletto vince quando gioca e che, in effetti, John Snow non sapeva niente.

Dal podio del congresso, Trump osserva l’agitazione tra i corrispondenti e pensa tra sé che finalmente la fottuta stampa ha capito la sua grandezza, cioè di Trump himself.

Ore dopo, la settima flotta navale dei fottuti marines e la fottuta 101 divisione aerotrasportata vigilano mari e cieli del mondo, sperando che i servizi segreti della NATO scoprano l’ubicazione del fottuto SIZATI per lanciargli 3 mila missili Tomahawk con 3 mila testate nucleari ognuno, oltre alla madre di tutte le bombe.

Nel bunker del padrone arriva la comunicazione: “i fottuti bastardi are fuckin every where» che in spagnolo si può tradurre come «non abbiamo una fottuta idea di dove siano quei dannati”.

L’industria militare lavora ormai a tutto regime per fornire nuovi missili, quindi bisogna esaurire quelli che già ci sono, altrimenti la fottuta compagnia del finquero si arrabbia. Il padrone scarabocchia un nuovo ordine. Il fottuto segretario alla difesa gringo guarda sconcertato ilfinquero. Il capoccia lo guarda con la faccia di «fallo!«, e il militare corre a trasmettere il nuovo fottuto ordine.

I 3 mila fottuti missili Tomahawk ricevono un nuovo fottuto obiettivo: la fottuta Casa Bianca (quella di Trump, si capisce, don’t worryfottuto Peña Nieto).

Sparate”, ordina il fottuto finquero, “troveremo un altro fottuto capoccia”.

Qualche ora dopo i leader mondiali esprimono il proprio cordoglio al «popolo fratello degli Stati Uniti», ed una lunga fila di afflitti aspetta il suo turno fuori dalla casa del padrone.

Tra le fila si possono distinguere la Hillary, il Chapo, la Calderona e l’aspirante poliziotto Aurelio Nuño Ramsey, che ripete a sé stesso «si dice read, non red«.

Molto lontano da lì, nello stato messicano sudorientale del Chiapas, sulla cima di una ceiba, connessa ad internet col suo computer attraverso un’antenna fabbricata dal SubMoy e dal Monarca col coperchio di una pentola, liane, nastro adesivo e un modem usb, una bambina e un bambino si guardano sconcertati e lei lo rimprovera: «Te l’avevo detto di non fare click lì«. Il bambino si difende «Non sono stato io«. In mezzo ai due bimbi, un animaletto che sembra un gatto… o un cane, agita allegramente la coda e sorride con fottuta malizia.

(fottuta dissolvenza)

-*-

 

II.- Difesa Zapatista e la pietra sul sentiero.

Perché sono così stronzi gli uomini?”.

La domanda viene dalla porta della capanna ed è la bambina Difesa Zapatista che, con le mani sui fianchi, mi guarda con severità.

Mi ha colto di sorpresa. Io stavo tentando di decifrare com’era possibile che più di 50 missili nordamericani Tomahawk avessero provocato solo 5 o 6 morti nell’aeroporto militare in Siria. O quei Tomahawk erano stati fatti in Cina, o i gringo avevano avvisato prima i russi per dargli il tempo di sloggiare.

Potrei chiedere a Difesa Zapatista la sua opinione ma credo che il momento non sia opportuno. Perché, mentre vi racconto questo, la bambina è già dentro la capanna e si è piantata davanti a me. Al suo fianco, anche il gatto-cane mi guarda fisso con disapprovazione.

Ero sul punto di rispondere «così come?«, ma la bambina non aspetta una risposta ma si assicura solo che la ascolti. Prosegue:

«Vi ha fatti così dio o studiate apposta per essere tarati? O vi preparate e allenate per essere pervertiti?».

“O si viene fuori così e quando si è piccini non si sa ma quando si cresce allora quello che è tarato è uomo e quella che è intelligente è donna?”

Io mi sto preparando un lungo discorso, come si dice, di difesa di genere, ma c’è un machete troppo vicino alla bambina arrabbiata e dubito che sia prudente cercare di muovermi perché il gatto-cane grugnisce, ostile, ai miei stivali.

Non riesco a capire che cosa abbia provocato la furia zapatista della bambina zapatista, ma lei non si trattiene nemmeno per riprendere fiato.

“Che forse in quanto donne non sappiamo usare il machete? Lo sappiamo fare. E sappiamo lavorare la terra e quando si zappa e quando si brucia e quando si semina”.

“Che forse non ne sappiamo di animali? Cioè degli altri animali, non parlo degli uomini”.

Quando la tempesta si placa, domando a Difesa Zapatista che cosa è successo che l’ha fatta tanto arrabbiare.

Tra minacce e proteste di genere, la bambina mi racconta:

Sembra che il commissario autonomo sia venuto a misurare il campo per installare un palco per il prossimo CompArte.

Difesa Zapatista voleva che il palco stesse su un lato del campo, dalla parte del ruscello. Così, più avanti, può servire perché lei ci salga a ricevere il trofeo una volta completata la squadra e vinto il campionato.

Il commissario ha pensato che stia meglio dietro la porta che dà sulla strada principale, e non ascolta gli argomenti della bambina che, vedendosi contrariata, ha deciso che il commissario, in quanto uomo, sta attaccando i suoi diritti di «come donne che siamo» ed ha cominciato a dare contro alla classe politica.

Mi racconta che la cosa è diventata grave perché il Gatto-cane si è sentito obbligato ad intervenire nella questione ed ha morso il commissario alla caviglia. Cosicché il cane, gatto o quello che sia e la bambina, sono stati portati nella scuola dove la promotrice di educazione ha ascoltato scandalizzata, come si dice, «il resoconto dei fatti» che le ha riferito il commissario.

Risultato: punizione, la bambina ed il gatto-cane dovevano cercare e parlare col SupGaleano affinché lui spiegasse loro perché l’arte è importante nella lotta.

Non vedendo particolare predisposizione ad apprendere né nella bambina né nell’animaletto, ho tentato di applicare il mio famoso metodo pedagogico «gira e rigira» che si basa sul postulato filosofico secondo cui «non c’è problema sufficientemente grande, che non si possa aggirare».

Quindi, ho raccontato loro la seguente storia: 

“La Pietra sul sentiero”

Ci sarà una volta una comunità. Tutti i giorni, molto presto, gli uomini e le donne prendevano il loro caffè ed un po’ di fagioli e dopo aver messo una palla di pozol ed una bottiglia d’acqua nello zaino, andavano alla milpa collettiva. Così era tutti i giorni, e la vita del villaggio indigeno seguiva il suo corso di resistenza e ribellione.

Ma, un giorno piovve molto forte ed una grande pietra precipitò dal monte fino ad ostruire il sentiero verso la milpa. Tutto il villaggio andò a vedere. Sì, era una pietra enorme. Provarono a rimuoverla, ma niente da fare.

Quindi, fecero un’assemblea sul posto ed espressero il loro pensiero sul da farsi.

Alcuni dissero che non c’era modo, che bisognava cercare un altro posto per coltivare la milpa.

Altri dicevano di no, che il terreno già era stato zappato e sarebbe rimasto incolto se non lo avessero più lavorato.

Altri dicevano che la pietra l’aveva messa lì la mafia del potere come parte di un complotto contro il Consiglio Indigeno di Governo del Congresso Nazionale Indigeno.

Andarono avanti quindi a discutere e si formarono vari gruppi: un gruppo diceva che bisognava pregare dio affinché togliesse la pietra, un altro gruppo diceva che non serviva dio, ma la scienza; ed un altro diceva che bisognava indagare e scoprire le orme dei chupacabrasSalinas, il De Gortari, non il Pliego. Perché il Salinas De Gortari era il Salinas cattivo ed il Salinas Pliego era il Salinas buono.

Allora, ogni gruppo si mise a fare quello che pensava.

Quelli della preghiera portarono l’incenso ed un’immagine del santo patrono del villaggio, costruirono un piccolo altare e si misero a pregare e pregare.

L’altro gruppo prese quaderni e metro a nastro e si misero a misurare e calcolare per rimuovere la pietra facendo leva con un palo.

Un altro ancora portò una squadra di detective marca «Mi Allegría» che con lente e microscopio ispezionava la pietra per vedere se ilchupacabras aveva lasciato le impronte del suo zoccolo.

I tre gruppi erano lì a fare quello che avevano pensato di fare, credendo che fosse il modo migliore di risolvere il problema.

In quel mentre arrivò una bambina.

Veniva dalla milpa.

Tutti la circondarono e cominciarono a farle domande.

Il gruppo dei devoti le chiedeva se dio le avesse inviato un angelo che l’aveva trasportata volando sopra la pietra, e cominciarono a gridare «miracolo! miracolo!» e a cantare salmi e lodi.

Il gruppo scientifico le domandò come aveva risolto la distribuzione del punto di appoggio, forza e resistenza, e si prepararono a prendere appunti nei loro quaderni.

Il terzo gruppo le chiese le prove della partecipazione del chupacabras cattivo, mentre redigevano un documento in cui i sotto firmatari invitavano tutti ad appoggiare col loro voto il redentore di turno. Il documento sarebbe uscito sui mezzi di comunicazione di proprietà delchupacabras buono.

La bambina taceva e guardava tutti stupita.

Alla fine la lasciarono parlare e lei spiegò che, quando quella mattina era uscita con un altro bambino, la stupida pietra era lì (così disse) e siccome non si riusciva a passare, il bambino e lei erano andati a prendere il machete ed avevano creato un varco che girava intorno alla stupida pietra (così disse) e, con la sua manina indicò il tracciato che, in effetti, aggirava l’ostacolo e più avanti si collegava con la strada. Al suo fianco, il bambino taceva.

Solo allora i tre gruppi notarono il sentiero.

Tutti festeggiarono e si congratularono con la bambina perché aveva risolto «la» problema.

Il commissario si lanciò in un discorso per lodare la bambina. Lei sì aveva pensato che è importante la strada per la milpa e per questo aveva fatto il sentiero.

Tutti applaudirono e chiesero che la bambina dicesse la sua parola.

La bambina si mise di fronte all’assemblea e spiegò:

«Non ho pensato affatto a quello che dite, io volevo solo raccogliere qualche fiore di Chene´k Caribe per far giocare la mia sorellina, e il Pedrito qui presente voleva scovare il tasso che ruba il mais», e mostrò i fiori all’assemblea, mentre il bambino si nascose dietro di lei.

Tutti rimasero zitti e un po’ delusi.

Alla fine il commissario prese la parola e disse: «facciamo festa«.

«Sììì» risposero tutti ed andarono a fare festa.

Tan-tan.

Difesa Zapatista ascoltò con attenzione tutta la storia.

Allora il gatto-cane andò nell’angolo dove c’era il mio machete e, muovendo la coda, abbaiò e miagolò alla bambina. Difesa Zapatista lo guardò e, all’improvviso, si alzò esclamando «Certo!», e prese il machete.

Vai a tracciare un altro sentiero?”, le domandai.

Ma quale sentiero!”, mi disse sulla porta.

«Vado a cercare il Pedrito e in collettivo distruggeremo il palco del commissario. Metto di guardia il Pedrito per controllare se si avvicina il nemico. E poi costruiremo un altro palco più bello di quello del commissario e metteremo fiori e colori e sarà molto allegro e musicanti e ballerine vorranno andare sul nostro palco e non su quello del commissario che sarà molto triste perché è degli uomini del cavolo. E dirò ai musicanti di fare la canzone di quando vinciamo la partita, e convincerò le ballerine ad entrare nella mia squadra e così saremo di più, anche se ci vorrà tempo, ma saremo di più».

Difesa Zapatista se ne andò. Io rimasi nella capanna a pensare dove avevo sbagliato nel mio metodo pedagogico.

Ora sono qui, seduto fuori della capanna, sperando che vengano a dirmi che Difesa Zapatista è in castigo nella scuola, col Gatto-cane che le dorme in braccio, mentre scrive nel suo quaderno per 50 volte «non devo ascoltare le storie del fottuto SupGaleano».

Fottute grazie.

SupGaleano.

Aprile 2017

 

Traduzione “Maribel” – Bergamo

 

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